Le innovazioni radicali di concezione e di stile di cui allora diede prova correvano tuttavia parallele con il suo fortissimo senso della tradizione, letta come attiva nel presente, una tradizione che per lui si riassumeva soprattutto in alcuni nomi: Virgilio, il suo modello di classico, Dante epico della cristianità, la poesia “metafisica” di John Donne, e infine Baudelaire e il simbolismo di fine Ottocento, di cui criticò gli esiti nella “poesia pura” di Paul Valéry. Il secondo capolavoro poetico di Eliot, i Quattro quartetti, scritti all’inizio degli anni Quaranta, con la Seconda guerra mondiale in corso. Formalmente si tratta di un poema “restaurativo”, classicamente costruito, meditativo, esplicitamente filosofico, in una linea di poesia di pensiero che ha in Dante il suo prototipo europeo e riemerge in Inghilterra a metà Ottocento nella teorizzazione di un critico poeta come Matthew Arnold.
Tutto questo per spiegare quanto fosse naturale che Eliot, nella drammatica crisi politica europea degli anni Trenta, si fosse impegnato nel delineare un’idea di società cristiana. Tra fascismi e comunismo sovietico, la crisi investiva l’intera civiltà, la sua storia, i suoi valori. Nelle prime pagine di quel saggio Eliot si chiede subito quali siano “i fini ai quali una società cristiana deve tendere per meritare questo nome”. Ma poi precisa che “dobbiamo trattare il Cristianesimo con un rispetto intellettuale assai maggiore di quanto siamo soliti fare, considerarlo cioè come una questione di pensiero piuttosto che di sentimento individuale [...]. Per ora non mi interessano i mezzi per realizzare una società cristiana, e neppure tengo in modo particolare a mostrarla desiderabile: ma mi importa molto, invece, spiegare in che cosa differisca dalla società attuale”.
Dunque avere, formarsi un’idea di società cristiana è per Eliot di per sé criticamente utile, perché permette di misurare la distanza fra la nostra religione e la nostra società: non farlo significa evitare di “guardare in faccia i valori reali che dominano la nostra vita”. Eliot affronta subito il problema posto in quegli anni dal confronto fra i totalitarismi dominanti nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin con le democrazie occidentali. Per farlo si serve di una provocazione radicale: “Ho insomma il sospetto che il nostro disprezzo per il totalitarismo contenga una buona dose di ammirazione per la sua efficienza”. Se infatti l’efficienza è un valore primario nelle democrazie borghesi e capitalistiche, allora dobbiamo temere il possibile contagio di regimi che “crediamo” di disprezzare più di quanto siamo realmente capaci di fare. È implicito cioè il sospetto che esista un totalitarismo tendenziale anche nelle democrazie che mirano ad accrescere la propria efficienza economica e organizzativa. Eliot dice di non avere in mente “un vago spirito cristiano” da “infondere nella nostra vita quotidiana”; pensa piuttosto ai “sociologi cristiani che criticano il nostro sistema economico alla luce della morale cristiana”. Il problema è dunque nel rapporto fra economia e morale, fra società borghesi moderne e cristianesimo: “Prima di ogni altra cosa, io mi preoccupo di una modificazione del nostro atteggiamento sociale che permetta l’avvento di una società degna di chiamarsi cristiana”. Non si tratta però né di sociologia economica, né di rapporti fra Chiesa e Stato. Si tratta della possibilità di uno Stato cristiano. La vera scelta, dice Eliot, è “fra la creazione di una nuova cultura cristiana e l’accettazione di una c ...[continua]
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