Eminente e tipico umanista americano, storico della cultura, del lavoro e della tecnica, Lewis Mumford (1895-1990) è stato fin dagli anni Trenta del Novecento un pensatore sociale che non ha cessato di indagare sulle strutture materiali, sulle utopie e sulla loro influenza sulla vita individuale e collettiva. L’eccezionale ampiezza dei suoi orizzonti di ricerca, che vanno dalla preistoria al mondo attuale, ne fanno uno degli autori tutt’ora più utili alla riflessione sul destino della civiltà umana. I suoi maestri connazionali, soprattutto Emerson e Veblen, fanno di Mumford un filosofo sociale che ha sempre stentato a entrare nella cultura italiana. Oggi che si parla di tramonto dell’umanesimo, sempre più minacciato dal “postumano” tecnologico, Mumford va riletto: e colui che più lo ha riletto e usato è il francese Serge Latouche, nel suo saggio La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri, 1995).
Il termine “Megamacchina” ripreso da Latouche viene in effetti da Mumford, che ne ha fatto ripetutamente uso approfondendone e ampliandone il significato nella storia delle civiltà. I suoi libri più importanti e famosi sono Storia delle utopie (1922), La cultura delle città (1938), La città nella storia (1961), Le trasformazioni dell’uomo (1956), Il mito della macchina (1967). Per Mumford la Megamacchina è un insieme organico, un’organizzazione sociale complessa e funzionale che produce e controlla forme di lavoro e di vita, il tipo di individui e il loro rapporto reciproco. Nel suo libro sul pensiero di Mumford e i suoi sviluppi dell’interpretazione del presente e del futuro prossimo, Latouche comincia anzitutto con questo riassunto:
Lewis Mumford ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo non era altro che l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto faraonico, la burocrazia celeste dell’impero dei Ming sono “macchine” di cui la storia ricorda l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha durevolmente sconvolto i destini del mondo; le piramidi d’Egitto stupiscono ancora l’uomo del XX secolo e la grande muraglia cinese resta fino a oggi la costruzione umana più visibile dalla Luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la performance tecnica e il potere politico, l’uomo diventa l’ingranaggio di un meccanismo complesso che raggiunge una potenza quasi assoluta: una Megamacchina. Le macchine semplici o complesse partecipano al funzionamento dell’insieme e ne forniscono il modello.
(Latouche, op. cit., pagina 9)
Si parte da lontano, come ha fatto Mumford nelle sue opere, per arrivare al Novecento e al futuro. Dai “tempi moderni” rappresentati genialmente da Chaplin negli anni Trenta (in cui l’uomo che lavora viene nutrito roboticamente alla catena di montaggio) all’imprenditore tedesco Walter Rathenau, che nella Germania di Weimar parlò di “meccanizzazione del mondo”, si arriva comunque al “grande automa”, che è la fabbrica della grande industria capitalistica, di cui aveva parlato Marx.
A conclusione dei suoi vari studi storici sulle trasformazioni tecniche e sociali, Mumford si rivela uno dei più decisi analisti e critici del Progresso. Prima di dare un certo spazio alla speranza, in spirito di utopia morale e perfino spirituale, Mumford delinea un ritratto particolarmente pessimistico degli attuali esiti a cui arriva il progresso meccanico-organizzativo:
Con lo sviluppo futuro dei sistemi cibernetici che permettono di prendere decisioni su problemi che, a causa della loro complessità e delle loro astronomiche serie numeriche, superano le capacità umane di pazienza e di calcolo, l’uomo post-storico sarà in grado di spodestare il solo organo umano di cui sembra importargli qualcosa: il lobo frontale del cervello. Creando la macchina pensante, l’uomo avrà compiuto l’ultimo passo verso l’assoggettamento alla meccanizzazione: e l’abdicazione finale davanti al suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto da adorare: il dio cibernetico. Questa nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca di quella pretesa dal Dio dei monoteismi: la certezza che tale demiurgo, i cui calcoli non potranno essere umanamente verificati, darà solo risposte corrette...
Generalizziamo tale risultato e vediamolo per quello che è. Una volta che l’automa avrà raggiunto la perfezione, l’uomo diventerà completamente estraneo al suo mondo e sarà ridotto a nulla: il regno, il potere e la gloria apparterranno alla macchina. Piuttosto che stabilire una ricca relazione di senso con la natura per guadagnarsi il suo pane quotidiano, l’uomo sarà condannato, a condizione di accontentarsi dei prodotti e dei surrogati forniti dalla macchina, a una vita di benessere senza sforzi. Tale benessere, più precisamente, sarà privo di sforzi se egli imporrà a se stesso di consumare esclusivamente i prodotti che di continuo la macchina gli fornirà, indipendentemente dal proprio grado di sazietà. Lo stimolo a pensare, a sentire e ad agire, in definitiva lo stimolo a vivere, scompariranno presto.
Negli Stati Uniti l’uomo, a causa della sua dipendenza dall’automobile, ha già cominciato a perdere l’uso delle gambe. Fra non molto condurrà una vita puramente viscerale, basata sullo stomaco e le parti genitali, benché ci siano ragioni per pensare che anche qui si applicherà il principio del minimo sforzo. Le madri americane non sono forse incoraggiate da molti medici a non allattare i loro figli? Da un punto di vista post-storico il latte in polvere è ben più soddisfacente dell’esperienza psicosomatica della tenerezza materna procurata dall’allattamento al seno. La scienza farà in modo di procurarci un orgasmo privo di sforzi per mezzo di una macchina eliminando così le incertezze dell’attaccamento umano e il bisogno di contatto fisico. Sarà questo un aiuto necessario all’inseminazione artificiale? Oggi si comincia solo a intravedere gli effetti del disprezzo per i processi organici e il tentativo ostinato di sostituirli a tutti i costi con surrogati meccanizzati.
(Mumford, Le trasformazioni dell’uomo, 1972, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Mimesis, 2021, pp. 178-79)
Il quadro che ci offre Mumford sembra integrare e aggiornare in un orizzonte di tecnoscienza in continua crescita quanto venti anni prima previde politicamente e socialmente Orwell in 1984. La prospettiva è tale che il suo esito non potrà che essere autodistruttivo. È solo per questa ragione che forse non si arriverà a realizzare una così totale meccanizzazione dell’umano. Mumford perciò aggiunge: “L’uomo post-storico, questa creatura completamente assoggettata alla macchina e che tristemente si è adeguata alla pseudo-vita dei suoi sistemi automatizzati, è una possibilità teorica, non una probabilità storica [...]. Malgrado tutto il potere della tecnica e la forza dei numeri, l’uomo post-storico possiede ancora una limitata speranza di vita” (ibid., p. 183). Come disse Orwell a proposito del suo 1984, “Non permettete che questo accada. Dipende da voi”.
A sua volta Mumford tenta di disinnescare l’incubo che lui stesso ha messo a fuoco con tanta precisione. La sua proposta potrebbe essere confortante, ma richiederà condizioni particolarmente favorevoli e uno sforzo assai arduo: “Oggi il compito principale dell’uomo è quello di creare un nuovo io, capace di dominare le forze che agiscono in modo tanto rischioso quanto costrittivo”. Un tale “io nuovo” ha qualcosa di utopico poiché dovrà combattere contro una potente tendenza storica: “cercherà di non imporre una uniformità meccanizzata, ma di costruire un’unità organica basata sulla piena realizzazione di tutte le risorse che la natura e la Storia hanno messo a disposizione dell’uomo moderno [...] è venuto di nuovo il momento di una grande trasformazione storica. L’unità politica dell’umanità può essere concepita realisticamente solo come parte integrante di un tale sforzo di autotrasformazione” (ibid., p. 185). Sarà necessario, niente di meno, che “creare e tramandare una cultura mondiale” che sappia unire Occidente e Oriente, con le loro più antiche e migliori tradizioni religiose e filosofiche.
Nel suo La Megamacchina, quale uso ha fatto vent’anni dopo Serge Latouche delle idee di Mumford? Anche nel suo caso l’utopia riappare. Una formula da lui usata è che per “scegliere il progresso dell’uomo” sarà necessario “cambiare l’uomo del progresso”, cambiare cioè la tradizione culturale che negli ultimi due secoli ha trasformato l’idea illuministica di progresso nell’ideologia di una società centrata sulla produttività e sul commercio. Dal Settecento in poi, per dirla ancora con Mumford, “se i signori e i padroni della società hanno adorato qualcosa, questa cosa è stata la macchina”. Le varie Megamacchine tecniche e organizzative sono infatti state create per fare soldi: “La combinazione di un potere tecnico incontrollato -e incontrollabile- e della decomposizione dell’ordine mondiale rappresenta esattamente la miscela esplosiva più terrificante che si possa concepire per rendere invivibile il pianeta” (Latouche, op. cit., pp. 192-93).
Se è vero che attualmente siamo a questo, il nostro sonnambulismo storico potrà esserci fatale.
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