Sono molto grato alla Università di Pisa -nelle persone del Rettore, Riccardo Zucchi, del professor Saulle Panizza e degli altri colleghi del Centro per l’Innovazione e Diffusione della Cultura per l’invito a introdurre questa manifestazione.
I percorsi per immagini e suoni, le aule multimediali, teatro e cinema mi sembrano condividano un unico intento, quello di cercare nuovi codici iconografici e linguaggi inediti per rappresentare la Resistenza e la nascita della democrazia repubblicana.
Credo di riconoscere qui le tracce della stessa istanza che si pose all’inizio della storia della democrazia. Nel luglio 1945, poche settimane dopo l’insurrezione partigiana, si aprì all’Arengario di Milano una mostra di documenti, fotografie, giornali e opere d’arte. Si trattava, allora, di far conoscere agli italiani una storia che era stata clandestina -la storia della Resistenza- e agli europei un’Italia diversa dal regime in cui essi la identificavano.
Dopo Milano, infatti, la mostra venne inaugurata a Torino e a Genova, esportata a Grenoble, Parigi, Zurigo. Albe e Lica Steiner, Mario De Micheli, Gabriele Mucchi, Aligi Sassu, Renato Guttuso e altri grafici, artisti, giornalisti riuscirono a rendere visibile quella Resistenza che era stata invisibile, inventando i linguaggi narrati e iconografici della sua rappresentazione, e lasciando così un segno nelle arti del Novecento.

“Il 25 aprile nasceva, dalle rovine della guerra, una nuova e diversa Italia, che troverà i suoi compimenti il 2 giugno 1946, con la scelta della Repubblica, e il primo gennaio 1948, con la nostra Costituzione”. Così recita la presentazione di questa nostra manifestazione: giusto, a condizione di aggiungere che questa nascita fu anche l’epilogo di una tragedia.
Stato italiano e regime fascista alleati del Reich nazionalsocialista, si erano infatti resi responsabili della guerra di aggressione contro l’Etiopia indipendente nel 1935, del concorso all’aggressione della Repubblica spagnola nel 1936, dell’occupazione del Regno di Albania nel 1939 e, a partire dal 1940, degli attacchi e invasioni di Francia, Grecia, Jugoslavia e Unione Sovietica. Negli ultimi tre paesi le truppe italiane si erano resi colpevoli di stragi di civili e persecuzioni degli ebrei.
Nel 1943, le sconfitte militari sui vari fronti tracimarono nella catastrofe nazionale: città e industrie devastate dai bombardamenti aerei, economia distrutta, popolazioni affamate e sfollate in tutta Italia.
Poco dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia, il regime, profondamente logorato, crollò: il 25 luglio Benito Mussolini venne sfiduciato dallo stesso Gran Consiglio del fascismo (un organismo di partito che era stato promosso a istituzione dello Stato) e arrestato per ordine del sovrano, Vittorio Emanuele III.
La caduta rovinosa del fascismo non fu dunque l’effetto dell’azione di una opposizione antifascista ancora troppo debole e divisa, ma di un colpo di Stato progettato e concordato tra re e vertici militari (tutti, peraltro, complici dell’avvento del fascismo, ventuno anni prima) con il concorso determinante dei gerarchi fascisti più trasformisti. Il tracollo del 25 luglio 1943 ci consente di cogliere nel doppio gioco, nel trasformismo e nella corruzione dei massimi poteri nazionali i significati autentici del trapasso di regime in Italia e il suo lascito nella successiva storia della Repubblica. Il governo tecnico-militare del maresciallo Badoglio confermò infatti l’alleanza con la Germania e la continuazione della guerra e represse nel sangue le manifestazioni antifasciste mentre, in segreto, trattava con gli Alleati per siglare la tregua, nascondendo la testa sotto la sabbia di fronte alla prevedibilissima reazione delle alleate truppe tedesche, massicciamente presenti nel territorio nazionale. Così l’8 settembre, all’annuncio pubblico dell’armistizio (fatto dagli Alleati), lo Stato letteralmente si dissolse: ministri e amministrazione centrale e periferica vennero abbandonati a loro stessi e l’esercito lasciato senza ordini. Mentre centinaia di migliaia di militari, all’estero e in patria, venivano catturati per essere internati come lavoratori schiavi in Germania, re e generali scappavano in auto verso Sud, consentendo ai tedeschi di liberare Mussolini in cambio della propria sicurezza e salvezza.
8 settembre 1943: Italia anno zero, si potrebbe concludere -anche in omaggio al regista Roberto Rossellini.

Spaccato in due dall’estate 1943, il paese venne dominato da due occupazioni militari (Alleati al Sud, sino a Cassino; tedeschi al Centro e al Nord, poi dall’autunno 1944, solo a Nord degli Appennini) e amministrata da tre diversi governi: nel Mezzogiorno amministrazione militare alleata (Amgot), ma anche il minuscolo Regno del Sud, residuale dello Stato monarchico, dall’aprile 1944 sostenuto anche dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale; nel Centro Italia, il sistema d’occupazione nazista (ma anche l’autorità religiosa del Pontefice in supplenza dello Stato); nel Nord, il sistema di occupazione Wehrmacht-Ss-Sd e la Repubblica Sociale Italiana; contro: l’organismo di direzione politico-militare della Resistenza, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.
Le conseguenze di tale frattura -sommandosi con le eredità storiche del dualismo economico e sociale tra Nord e Sud del paese- sarebbero perdurate per decine di anni.
La liberazione, alla fine dell’aprile 1945, venne conquistata grazie alla vittoria degli eserciti alleati nell’offensiva finale. Questa considerazione è persino ovvia. Ma il contributo delle brigate e delle formazioni partigiane, dell’opposizione operaia, della resistenza civile, risultò decisivo sul piano militare (a Genova le truppe tedesche si arresero ai partigiani) e soprattutto su quello politico.
Senza tale contributo, la vittoria della Repubblica nel referendum del 1946 non sarebbe stata possibile. E, all’opposto, il Trattato di Pace sarebbe stato ben più punitivo. D’altro canto, è vero, come ha scritto Federico Chabod, che subito dopo il 25 aprile “lo slancio rivoluzionario non ebbe più speranza”.
La stessa unità di governo dei partiti antifascisti si ruppe nel 1947, ben prima della conclusione dei lavori di elaborazione del testo della Costituzione.

In un paese da due anni diviso, occupato e devastato, certamente occorreva in primo luogo ricostruire l’economia e ripristinare istituzioni e norme dello Stato.
Le esigenze dell’economia contribuirono ad attenuare, se non a spegnere, la domanda di trasformazione dei rapporti sociali e di giustizia proveniente da contadini, operai, lavoratori. Le esigenze dell’amministrazione concorsero a ricostruire la forza tecnica della burocrazia, che presto però divenne forza politica di restaurazione della continuità dello Stato e persino di funzionari, istituti e norme del regime fascista. Chiudere la parentesi della Resistenza: questo divenne l’obiettivo delle forze della conservazione, con il concorso della stanchezza di tanti.
Così, mentre cospicue masse di popolazione, che pure avevano accettato con consenso il regime, lentamente si andavano educando alla democrazia, il passato venne rimosso, con l’intento di ridurre la Resistenza a un fenomeno ininfluente nella sconfitta del fascismo, nella conquista della democrazia, nella storia d’Italia. Con il disegno di considerarla un fastidioso ostacolo alla riconciliazione nazionale.
Ben diversa mi pare la verità storica.
Con tutti i suoi limiti di ideazione e di realizzazione, la Resistenza è stata uno dei pochi processi storici vissuti dagli italiani in cui si provò, innanzitutto nelle coscienze dei tanti protagonisti, a colmare la distanza tra le convinzioni morali delle singole persone e i valori pubblici e a rifondare gli interessi privati con la lealtà alla comunità politica.
In tal senso, la catastrofe nazionale dell’8 settembre 1943 e lo sfascio di tutte le istituzioni, costituì -come sottolineò il cattolico Telesio Olivelli- uno “spartiacque”. Quella catastrofe pose popolo e singoli cittadini di fronte a opzioni drastiche tra scelte diverse, alle quali molti mai avrebbero pensato di essere chiamati.
Nella normalità, infatti, nessuno di noi deve necessariamente prendere posizione esplicita di lealtà o rifiuto nei confronti dello Stato, dei suoi valori, delle sue norme. In quello sfascio generale del 1943, invece, divenne necessario prendere posizione e consentire o dissentire, proprio perché un riferimento pubblico sicuro per la condotta morale individuale non esisteva più. Ognuno fu chiamato a fare la propria scelta, in una solitudine che era anche libertà, dopo anni di obbligazione e disciplina autoritaria.
Di fronte all’autorità restaurata di Salò e dei poteri nazisti, la scelta della renitenza alla leva o addirittura della resistenza assunse i significati dell’esplicita disobbedienza, del rifiuto, della ribellione: chi resisteva sceglieva di rifiutare in piena libertà quello che Ada Gobetti definì “un mondo impossibile”. Il valore della libertà venne conferito all’atto stesso di scegliere. La scelta fascista significò invece volontà di confermare una identità alla quale si era assuefatti -fraintendendola con l’onore; di obbedire all’ordine costituito; di mantenere lealtà verso l’alleato nazista.

Tornare a quegli anni e ai dilemmi drammatici che si posero a tutti, e in particolare alle giovani e giovanissime donne, ai ragazzi, è un esercizio utilissimo ancora oggi. Che cosa avremmo fatto noi se ci fossimo trovati nella loro condizione? A comprendere tale interrogazione possono servire due documenti, due memorie.
Nel 1943, due giovani studenti, rispettivamente di ventidue e sedici anni, si schierarono su fronti opposti: uno nella Resistenza, a Roma (la sua città) e, dopo il carcere, a Milano; l’altro nelle Brigate Nere, in Toscana e al Nord. Entrambi, nei decenni successivi, sono divenuti storici di prestigio e hanno insegnato a Pisa, all’Università Claudio Pavone, nella Scuola Normale Superiore Roberto Vivarelli. Di quegli anni della giovinezza hanno lasciato le proprie memorie.

In La mia Resistenza. Memoria di una giovinezza, Claudio Pavone annota:
“Nelle situazioni eccezionali può accadere, e allora accadde a molti, che sia straordinariamente rapido e chiaro il cammino che porta a maturare convinzioni e a prendere decisioni irrevocabili”. Per lui, giovane cattolico ma di convinzioni socialiste, contarono il rifiuto dell’autoritarismo ma anche il disprezzo per l’insipienza e la fiacchezza morale del re e dei vertici dell’esercito dopo l’8 settembre. Bisognava dare un senso nuovo alle idee di patria e di libertà.

In La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Roberto Vivarelli condanna, da storico maturo, la scelta fatta da ragazzo per la Rsi, sia sul piano della storia che su quello etico, ma rivendica la propria buona fede e l’onesta intenzione. Giustifica cioè, sul piano morale, quella scelta che invece critica e condanna sul piano storico ed etico, perché egli avrebbe agito di necessità, “obbligato” (scrive così) dal momento, dal contesto, dalla propria educazione e formazione. Dunque: se ci fu stato di necessità e se la scelta fu obbligata, non vi fu responsabilità. E, tuttavia, la sua distinzione tra autocritica sul piano storico e autoassoluzione sul piano morale suona labile e contraddittoria.
I giovani che optarono per la Repubblica di Salò sapevano di aderire a uno Stato e di essere coperti dalle sue leggi nello svolgimento di un’attività militare che non fu mai esercitata sul fronte, ma sempre nella repressione interna: sapevano di esercitare violenza su coetanei ribelli, renitenti alla leva, disobbedienti; sulle popolazioni civili che eventualmente li sostenevano; sui concittadini ebrei perseguiti. Non si trattava di atrocità che accadono in tutte le guerre -come scrive Vivarelli- (sebbene tutte le guerre ne implichino): quelle atrocità furono l’effetto di un sistema di ordini e procedure specifiche e specificamente naziste e fasciste. Scegliere significò accettare quelle procedure.
È per tale ragione che non si possono equiparare le due diverse scelte sul piano morale, così come le due diverse parti in lotta sul piano etico. Né si può affermare che, semplicemente, la maggioranza degli italiani “stette alla finestra”, perché -ha scritto Primo Levi- nella zona grigia tra le due minoranze combattenti infinita fu la varietà di posizioni, dalla resistenza passiva all’opposizione civile, dall’attesa al rifiuto cattolico o cristiano della lotta tra fazioni.

Tra 1943 e 1945 venne combattuta una guerra di liberazione dall’occupazione nazista, che fu anche guerra di classe per la giustizia sociale e guerra civile tra italiani, antifascisti e fascisti. Norberto Bobbio ha spiegato che in ogni guerra civile, interna, fratricida (come fu anche in parte il Risorgimento), il nemico non è solo militare, ma assoluto, cioè nemico di ciò che si ritiene giusto. Tale guerra rischia di essere, perciò, la più spietata. Ma anche la guerra contro il nemico dei propri valori non può essere praticata senza vincoli etici e morali, né le azioni contro il nemico si possono valutare giuste o ingiuste solo sulla base delle convinzioni che le motivano. Ogni azione è legittima sul piano etico quando, in perfetta cognizione di causa, si può affermare che il bene che dovrebbe venirne prevarrà sul male che potrebbe derivarne. Tale rimane una delle lezioni più importanti di quella tragedia.

Leone Ginzburg ha scritto che la scelta politica costituisce un ideale operativo che nasce da convinzioni morali che prescindono dalla valutazione storica. Essere antifascisti o fascisti non prescindeva tuttavia sempre dal prendere posizione sulla storia: per i fascisti si trattava di completare il Risorgimento in una “più grande Italia”, potenza industriale, militare e coloniale; per gli antifascisti, invece, di superare ogni limite antidemocratico del Risorgimento e dello Stato monarchico-liberale, dunque di combattere ogni “vario nazionalismo” (l’espressione fu di un grande storico, Gioacchino Volpe, peraltro nazionalista, poi fascista).
I nazionalismi del Novecento nacquero dalle rivalità territoriali ed economiche insorte dopo la dissoluzione dei grandi imperi (ottomano, zarista, asburgico e tedesco) per effetto della Grande Guerra 1914-1918 e dalle reazioni alle decisioni di Versailles e alle conseguenze economiche della pace. In Ungheria, Polonia, Regno di Jugoslavia, Italia, Austria, Germania si formarono via via sistemi nazionalistici, autoritari, corporativistici, dittatoriali e totalitari fascisti.
Nella diffusione di regimi illiberali, antidemocratici e antisocialisti, le menti più lucide dell’opposizione si chiesero: se il fascismo è essenzialmente nazionalismo -nemico interno delle libertà generato dalla crisi stessa della civiltà politica e illuministica europea- per combatterlo bisogna estirpare ogni mito dell’identità nazionale e della razza, e persino il concetto stesso di Stato-nazione?
La risposta fu il primo progetto di comunità federalista e internazionale europea, formulato proprio dagli italiani Eugenio Colorni, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, un progetto che ha concorso quantomeno a ispirare idealmente il processo di integrazione europea -il Mercato comune, la Comunità europea, l’Unione europea. Così, quanto più è cresciuta la coscienza europea, anche la Seconda guerra mondiale è apparsa, oltre che guerra tra Stati, una guerra civile combattuta tra europei, tra i sostenitori del Nuovo Ordine Europeo hitleriano, fondato sulla gerarchia razziale tra le nazioni, e i difensori di un nuovo equilibrio tra integrazione, cooperazione e autonomie.

Quando, tra 1989 e 1991, l’ordine postbellico definito tra 1945 e 1948 è crollato a causa della dissoluzione dell’Europa orientale socialista autoritaria e dell’Unione Sovietica, l’alternativa tra nazionalismo e cooperazione è affiorata in termini nuovi. L’Unione si è allargata a Est, mentre l’unificazione dei mercati e le politiche di liberalizzazione-privatizzazione delle economie suggerite dalle istituzioni finanziarie internazionali (a partire dal Fondo Monetario) sollecitavano reazioni nazional-populistiche e sovraniste anche in Europa occidentale e in Italia. Le guerre di aggressione nazionalistiche sono ricomparse in Europa centrale e orientale, da Sarajevo negli anni Novanta a Odessa nel 2022-2023.
Alla distruzione della vecchia Jugoslavia plurietnica sono seguite la guerra tra croati e sloveni, l’aggressione del nazionalismo serbo alla Bosnia, il conflitto tra albanesi e serbi nel Kossovo: guerre tutte miranti alla forzata aggregazione etnica dei Balcani, sino al limite della sottomissione totale, dell’espulsione di massa, del genocidio; poi di nuovo con le guerre di aggressione del nazionalismo russo, sorto dal fallimento della transizione riformatrice dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica: due volte in Cecenia, poi in Georgia, Crimea e ora con l’invasione dell’Ucraina, un crimine internazionale comparabile all’invasione statunitense dell’Iraq o a quella di Hitler e di Stalin della Polonia, nel 1939.

Con le aggressioni nazionalistiche e con l’incubo della guerra atomica, tornano anche i dilemmi morali del periodo di cui si è detto, i dilemmi su come resistere alle aggressioni, sostenere i resistenti, disarmare gli occupanti. La responsabilità della scelta appare simile a quella del 1943-45, e ognuno deve assumersene l’onere.
Mi limito a ricordare quello che Gandhi scrisse, proprio alla fine della Seconda guerra mondiale, che la non violenza deve essere efficace: di fronte alla sua eventuale impotenza, meglio il suo opposto piuttosto che cedere alla viltà.
“Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione, che non reca beneficio a nessuno […]. Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio, che ciascuna persona deve saper giudicare da sola. Nessun altro può farlo o ha il diritto di farlo al suo posto”.
Intervento alla inaugurazione degli eventi promossi dalla università di Pisa. Palazzo della Sapienza 22 aprile 2022