Franz Kafka (1883-1924) è il più intellettuale, mentale, filosofico narratore del secolo scorso. È lo scrittore senza il quale il Novecento non avrebbe avuto uno dei suoi maggiori interpreti. Uno scrittore che non avrebbe potuto nascere in nessun secolo precedente. E ovviamente nessun secolo è stato “kafkiano” come il Novecento: il secolo di Auschwitz e di Hiroshima, di Hitler e di Stalin, dell’assurdo quotidiano e della Storia come trascendente incubo che incombe sull’intera umanità, ma non meno concretamente sulla vita di ogni singolo individuo. Il secolo della potenza e dell’impotenza politica, della società di massa e della più inspiegabile e cieca solitudine, della socializzazione totalitaria, dello stato burocratico e onnipotente. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi Kafka sembra aver parlato di tutto questo in forma di parabola. Le sue sono allegorie in stile cronistico e di appunti diaristici magistralmente condensati come aforismi. Cronache allegoriche spesso di agghiacciante umorismo nello stesso tempo metafisico e comico, che sa di tragedia e di commedia.
Da Kafka vengono scrittori come Camus e Beckett, pensatori e critici come Benjamin, Adorno, Canetti, Gunther Anders. Il personaggio-protagonista di nome K. è un tutti e un nessuno. È l’individuo ridotto all’anonimato di una sola lettera, che lo identifica nel momento stesso in cui lo relega in una grigia inconsistenza.
Nella breve parabola Davanti alla Legge viene riassunta un’intera vita come inutile attesa e fallimento ontologico. L’accesso alla vita e alla sua verità, alla legge, viene impedito dall’inizio alla fine. Impedito a un singolo come a chiunque altro. La legge alla quale si chiede di accedere risulta alla fine e solo alla fine di non essere accessibile. Perciò la lunga attesa è stata una lunga illusione, l’imposizione di un inganno senza un perché da parte di un tribunale superiore e perennemente invisibile:
Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. “Può darsi”, dice il guardiano, “ma adesso no”. Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: “Se ti attira tanto, prova a entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me”.
Forse non è neppure certo che la legge esista, forse esiste solo il primo guardiano, oltre il quale non si va. Ciò che questo guardiano dice è la sola cosa che si può sapere della legge e dei suoi vari guardiani, depositari ognuno di un potere gradualmente superiore e sempre più spaventoso:
L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro, decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: “Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa”.
L’individuo solo, “l’uomo di campagna”, l’uomo comune è convinto che la legge che regola la vita giusta sia e debba essere aperta a tutti, alla conoscenza di tutti e senza nessuna difficoltà. Questa convinzione però gli si rivela ingenua e sbagliata, una volta incontrato il guardiano e visto il suo pauroso aspetto fisico, la sua scoraggiante, severa autorità. Il guardiano è lì per non far entrare l’individuo, per farlo attendere senza mai spiegargli le ragioni di una tale attesa, che si rivela subito più lunga del previsto. Il modo che il guardiano ha nel rivolgersi a lui con qualche inutile domanda è il modo tipico di un superiore nei confronti di un inferiore. L’accesso alla legge è comunque precluso, inutile illudersi che questa preliminare regola della legge possa essere violata e sospesa per l’uomo che aspetta:
Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ce ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sé. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano affinché cambi idea. Alla fine gli si affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi molto fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo. “Che cosa vuoi sapere ancora?”, domanda il guardiano, “sei proprio insaziabile”. “Tutti si sforzano di arrivare alla legge”, dice l’uomo, “e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?”. Il guardiano si accorge che l’uomo è allo stremo e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo”.
L’attesa è durata inutilmente per anni. Chi attende dimentica l’ammonizione del primo guardiano, secondo cui di guardiani, sempre più spaventosamente potenti, ce ne sono, dopo la prima porta, molti altri. Nell’attesa di anni e anni, sempre più esasperante, l’uomo impreca contro la sua cattiva sorte. Ma lentamente invecchia, e anche le sue proteste si affievoliscono, riducendosi a un “borbottare fra sé”. La sua mente ormai vacilla e i suoi tentativi di superare il divieto del guardiano sono sempre più insensati e ridicoli. Alla fine della vita all’uomo viene rivelata la verità. Quella porta d’ingresso alla legge non era per chiunque, non era per tutti, era destinata solo a lui e lui non è riuscito a ottenere l’ingresso. Peggiore crudeltà non era possibile. Aspettare per l’intera vita senza mai ottenere la cosa cui si aspirava di più. L’uomo in vuota attesa è stato punito per la sua inettitudine, per la sua impotenza, di cui tuttavia non era né consapevole né responsabile. Il destino di “mancare la propria vita” è stabilito, eppure chi lo subisce ne è giudicato responsabile.
L’amico Max Brod ricorda nelle sue memorie che una volta Kafka gli disse: “il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una cattiva giornata”. Secondo Brod “il mondo dei fatti più importanti” era per Kafka un mondo invisibile, non storico ma metafisico. E tuttavia fra le diverse ipotesi interpretative dei critici e dei commentatori c’è anche l’ipotesi sociologica. Il “mondo invisibile dei fatti più importanti” si presenta in Kafka nella forma sensibile di un apparato burocratico. Apparato di cui il dottor Franz Kafka, laureato in Legge, doveva avere esperienza diretta e quotidiana in quanto impiegato in una agenzia di Assicurazioni. Nella assoluta singolarità letteraria di una tale narrativa la percezione del lettore incontra in ogni istante la simultanea presenza di autobiografia e di indecifrabile necessità metafisica. Eccezionale aforista nei suoi diari, Kafka appartiene sia alla tradizione della mistica ebraica che alla storia europea intorno alla guerra 1914-18, che Karl Kraus mise documentariamente in scena nella sua satira apocalittica Gli ultimi giorni dell’umanità. Come ha scritto Giuliano Baioni, il maggior studioso italiano di Kafka, nella sua opera ci sono nello stesso tempo “teologia e psicanalisi, ricerca di Dio e complesso paterno, tragedia e satira insieme”. Con la Prima guerra mondiale, crolla il mondo dell’impero austro-ungarico in cui era vissuto Kafka e cominciano ad annunciarsi i primi sintomi dei totalitarismi che trionferanno nell’Europa degli anni Trenta, da una guerra a un’altra.
Kafka (e noi?) davanti alla Legge
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