Quando tre mesi dopo -il 23 marzo del 1994- viene depositata la motivazione della sentenza è subito chiara la frode di giustizia che è stata realizzata. Il giudice dott. Pincioni, al quale è stato affidato il compito di redigerla, e il dott. Gnocchi, Presidente della Corte che la sottoscrive, hanno volontariamente "suicidato" il verdetto di assoluzione, tradendo la volontà dei giurati che l’avevano decisa.
Nel nostro sistema giudiziario il compito di motivare la sentenza è sempre affidato ad un giudice "togato" anche quando -ed è il caso della Corte di Assise- il collegio è composto in prevalenza da giudici popolari. Il togato deve cioè articolare in forma logica e coerente la spiegazione della decisione presa dalla Corte, cercando di giustificare la scelta operata. Nel caso di Bompressi, Pietrostefani e Sofri, il compito era particolarmente semplice perché le Sezioni Unite della Cassazione avevano già tracciato un itinerario critico molto stringente del materiale probatorio del processo. Ma il dott. Pincioni evidentemente ha una singolare concezione del suo ruolo, non si adegua al compito umile che gli è assegnato come componente di un organo giudiziario collegiale, tenuto al rispetto della volontà della maggioranza. Decide di irridere i giudici (popolari) e la loro scelta e scrive ben 387 pagine caparbiamente volte invece a dimostrare la responsabilità dei tre imputati. Così a pag. 259 "...Occorre leggere attentamente tutti i verbali di interrogatorio del Marino e le trascrizioni dell’interrogatorio reso in fase dibattimentale (circa 360 pagine) per rendersi conto di come le dichiarazioni dell’imputato si siano mantenute costanti nonostante siano state oggetto di ogni sorta di contestazione, come punto per punto siano state sezionate nei minimi particolari e come ogni mezzo per indurre il dichiarante in contraddizione sia stato puntualmente tentato. Nonostante tutto quelle dichiarazioni non sono cambiate e, per giunta, si sono arricchite di particolari...". Per quel giudice le contraddizioni rilevate dalla Suprema Corte al racconto di Marino non tengono conto "del lungo tempo trascorso dai fatti che sono stati riferiti e della pressione psicologica cui è stato sottoposto... dell’enorme squilibrio culturale, dialettico ed emotivo (!??) dei suoi oppositori, avvocati (!??) e coimputati".
Le dichiarazioni rese da Marino debbono perciò considerarsi "intrinsecamente attendibili". E a pieno riscontro delle sue parole viene ricostruita "una struttura clandestina e terroristica" di Lotta Continua. Pag. 296 "...Due sono le possibilità che un minimo di logica suggerisce: o Marino nulla ebbe a che fare con l’omicidio del commissario Calabresi, o -se la sua partecipazione all’omicidio risulterà provata- l’esecuzione dell’attentato dovrà attribuirsi al ’braccio armato’ di Lotta Continua e la relativa decisione dovrà farsi risalire inevitabilmente al massimo organo rappresentativo e direttivo del Movimento (l’Esecutivo Nazionale) in considerazione della estrema gravità dell’azione delittuosa, del suo significato politico e delle sue immaginabili conseguenze. Trattasi della conseguenza strettamente logica desumibile da elementi di fatto concreti: esistenza dell’Esecutivo Politico Nazionale come ’istanza’ di vertice di Lotta Continua, esistenza della struttura illegale con finalità eversivo-terroristiche, dimostrata attribuibilità a quella struttura...". Vana è ogni difesa. Per il Bompressi, con un evidente corto circuito logico, perché si assume come prova ciò che deve essere riscontrato (pag. 307) "... Le Sezioni Unite hanno rilevato che l’assidua presenza di questi a Torino poteva essere spiegata con la sua attività politica e non necessariamente con il compito assertivamente assegnatogli di organizzare la ’struttura illegale’. Si tratta di un’ipotesi possibile che, però, si scontra con le dichiarazioni di Leonardo Marino (considerate intrinsecamente attendibili e con la testimonianza della Bistolfi) ...". Le contraddizioni concernenti le modalità del furto dell’auto usata per l’agguato "possono destare qualche perplessità, ma non valgono a r ...[continua]
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