algeria, lettere da...
Una Città n° 55 / 1997 Dicembre-Gennaio
Articolo di donne giornaliste algerine
INCUBO
Dal supplemento ad alcuni quotidiani algerini Donne giornaliste pubblicato in occasione dell’8 marzo 1996.
Oggi, 8 marzo, festeggio i miei 25 anni. Normalmente, avrei dovuto celebrare questa data nel mio villaggio natale, Chréa. Avrei voluto ritrovarmi con tutta la mia famiglia, le mie amiche, mi sarebbe piaciuto festeggiarlo in mezzo a quelle vecchie case tradizionali costruite da mia nonna, dalle donne del mio villaggio che hanno pazientemente portato tutte quelle pietre. Le hanno portate sulla loro schiena, così come fanno per portare l’acqua dalla fontana. Mi sarebbe tanto piaciuto rivedere quelle fontane. Ma non potrò fare né una cosa né l’altra. Con le altre donne del villaggio, mi ritrovo in fuga ormai da un mese e una settimana. Cinque lunghe settimane. Siamo scappate per sfuggire alla sorte che volevano riservarci i terroristi. Sono venuti all’inizio del Ramadhan e hanno osato domandare ai nostri padri e ai nostri fratelli di consegnarci a loro, per servirli per un mese. Con le minacce. hanno riunito tutti gli uomini e hanno recensito tutte le ragazze del villaggio, 30 in totale. Hanno preso i loro gioielli, i loro soldi, i loro viveri, le loro coperte. Hanno ben precisato che dovevamo servirli per 30 giorni. Ma ci avrebbero veramente rilasciate dopo questo periodo? Non avremmo invece subito la triste sorte di Zoulikha, Saida, Karima Belhadj e tante altre? Forse ci saremmo anche noi ritrovate incinte di quel pesante fardello, troppo pesante, impossibile da portare, per i nostri corpi violentati e umiliati, nella nostra società, nel nostro villaggio dove è già così difficile essere accettate, essere donne. Fortunatamente uno dei nostri uomini è riuscito a convincerli a lasciarci almeno un giorno per prepararci. La notte stessa, anzi all’alba perché erano le quattro del mattino, siamo tutte fuggite, chi a piedi, chi con un camioncino, abbiamo tutte quante lasciato dietro di noi le nostre madri, i nostri fratelli, le nostre case, le nostre vite, il villaggio che ci ha visto nascere. Siamo scappate per sfuggire al zaouadj el moutaâ, il matrimonio di piacere. Che cos’è il matrimonio di piacere? Uno dei terroristi aveva precisato che ogni tre giorni avrebbe “divorziato” da una di noi per andare a violentarne un’altra. Io rifiuto questo matrimonio di piacere, rifiuto di piegarmi al diktat di coloro che pretendono che la religione autorizzi lo stupro, il rapimento, lo sgozzamento. Rifiuto di figurare sulla lista delle altre vittime della fatalità, lo rifiuto, lo rifiuto... Voglio battermi contro di loro (non oso neppure più pronunciare il loro nome perché solo gli esseri umani possono avere un qualificativo). Voglio battermi contro chi dice che bisogna avere misericordia per coloro che vogliono distruggere la mia vita, che vogliono distruggere le nostre vite, che hanno assassinato molte mie concittadine, che uccidono i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri bambini. Voglio battermi contro tutti quelli che considerano la mia presenza nel mondo come una tara. Più penso a Rabéa, moglie del defunto Mohamed Sellami, più penso a tutte le vedove, agli orfani, più penso a tutte quelle che si trovano nelle grotte dei terroristi o a quelle che rischiano di ritrovarcisi, come me, o che sono costrette ad abbandonare tutto e tutti, a ritrovarsi dall’oggi al domani senza speranza, più ho voglia di battermi. All’inizio abbiamo pianto molto, piango ancora (è normale, non sono come loro, io sono un essere umano), ma dalla disperazione è nata una forza che non mi conoscevo, quella di volermi imporre, come donna, come algerina, come essere umano. E’ il mio compleanno, ho diritto di esprimere un desiderio. Vi chiedo di alzarvi e di osservare un minuto di silenzio in memoria di tutte le nostre sorelle assassinate.
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Realizzata da Francesca Barca
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