Al tempo dirigevo il servizio Relazioni Pubbliche e Stampa di quell’Ente ed avevo avviato da alcuni mesi con Sergio Lolletti, mio collaboratore, una ricerca sulla strage di Tavolicci. In quel borgo dell’Appennino forlivese, al confine con la provincia di Pesaro, era stato perpetrato il 22 luglio 1944 l’eccidio di 64 persone -20 uomini, 25 donne e 19 bambini- e l’accaduto, dopo trent’anni, era ancora avvolto nelle nebbie di racconti orali frammentari. Stranamente, persino il libro La Resistenza in Romagna, di Sergio Flamigni e Luciano Marzocchi, pubblicato nel 1969 e considerato l’alfa e l’omega sull’argomento, non faceva cenno ad un fatto tanto traumatico ed importante, se non in una didascalia di pochissime righe in cui si attribuiva erroneamente la strage a truppe tedesche, a corredo di una foto di repertorio non pertinente la località di Tavolicci.
Il bisogno anche intimo di ricostruire i fatti e le perplessità su un silenzio ufficiale durato trent’anni ci avevano indotto a dar corso all’inchiesta, con il placet del Presidente dell’epoca.
Le interviste sul campo dei pochi sopravvissuti e di testimoni, i documenti d’archivio, i memoriali di sacerdoti del posto, se da un lato avevano diradato le nebbie sulla strage responsabilizzando formazioni militari della Repubblica Sociale, che rivendicavano per parte loro l’operazione, dall’altro avevano fatto emergere in modo sconcertante la figura di Riccardo Fedel (Libero Riccardi) primo comandante del gruppo Brigate Romagna. Libero veniva descritto dai documenti di fonte fascista come un acerrimo nemico, fondatore e comandante del Dipartimento partigiano di Corniolo, con toni persino mitici, mentre da parte di alcuni ex partigiani veniva fatta trapelare l’idea che egli fosse stato fucilato in quanto spia al servizio della polizia segreta, sabotatore e provocatore a favore dei fascisti. Ma i suoi comportamenti sul campo non legittimavano le voci accusatorie. Per cercare di venire a capo del dilemma, contattammo i famigliari di Riccardo Fedel constatando che essi coltivavano la memoria eroica di un incontaminato comandante antifascista.
Alcune settimane dopo il contatto con la famiglia Fedel la mia convocazione da parte di Luciano Marzocchi e la sua richiesta perentoria di interrompere la ricerca e di consegnare alla custodia dell’Istituto Storico della Resistenza di Forlì la documentazione raccolta "in attività di servizio”, accompagnata dalla tesi ribadita che Libero fosse un traditore giustamente soppresso. Eppure, ed io al tempo non lo sapevo ancora, una sentenza del 1948 -25 anni prima- aveva scagionato Riccardo Fedel dalle false accuse di spia fascista, apparse nel 1946.
La connessione fra i due fatti mi parve inequivocabile: vi era stato un contatto traumatico fra i famigliari di Libero e lo stesso Marzocchi che si preoccupava che il nostro lavoro potesse scavare ancor più in profondità nel castello di menzogne costruite a copertura della soppressione di un comandante scomodo.
Il castello di menzogne, a 66 anni dall’accaduto, non è stato ancora smontato; la memoria di Libero non è stata "riabilitata”, nonostante le recenti ulteriori e decisive prove documentali apportate dagli archivi britannici e tedeschi ad opera del nipote e del figlio della vittima. Il muro di silenzio permane impenetrabile; semplicemente non si risponde alle argomentazioni emerse. Per dovere di verità storica, il primo fondamentale obiettivo è la restituzione dell’onore al primo comandante del gruppo Brigate Romagna. Intanto facciamo questo!
Rimane un secondo aspetto della vicenda su cui è necessario fare luce; si tratta di questione da dirimere in sede storica, ma che viene dopo, subito dopo. Quanto è accaduto nel forlivese è espressione di una frangia settaria di comunisti eretici oppure si inquadra in una politica del Pci, Stalin e Togliatti imperanti dopo la svolta di Salerno del marzo 1944, per acquisire il controllo delle brigate partigiane? Nella stessa Emilia-Romagna vi sono episodi analoghi. Se il 27 marzo 1944 Riccardo Fedel viene rimosso dal comando e sostituito da Ilario Tabarri, quindi fucilato nella prima quindicina di giugno; il 5 giugno 1944 viene ucciso nel piacentino "da fuoco amico” Giovanni Molinari, leader della formazione partigiana "Piccoli”; analogamente, il 22 luglio 1944 è giustiziato sull’Appennino tosco-emiliano, nel ...[continua]
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