Cari amici,
negli ultimi due giorni sono stata a due pranzi al Club della stampa estera di Hong Kong che si concludevano con il discorso di un oratore legato alla stampa e alla Cina, e una brevissima sessione di domande e risposte. Il primo era con Wang Xiangwei, il direttore del principale quotidiano in lingua inglese di Hong Kong (e in pratica anche l’unico: l’altro, "The Standard”, adesso è diventato un giornale distribuito gratuitamente che ha quasi solo notizie di agenzia), il "South China Morning Post”. Non è un quotidiano da niente: ha più di cento anni di vita ed è sempre stato una delle principali fonti di informazione su quanto avviene in Cina, in particolare per chi non legge il cinese. Come quasi tutta la stampa di Hong Kong è di proprietà di una famiglia di industriali (i Kuok, in questo caso) che lo considerano un po’ come un "vanity project”, in particolare adesso che anche qui la stampa sta attraversando momenti difficili dal punto di vista finanziario.
Quest’anno, per la prima volta, un giornalista cinese "del continente” (come si dice a Hong Kong per distinguerli dai cinesi locali, o hongkonghesi) è stato nominato come direttore, e la cosa ha suscitato un certo scalpore: Hong Kong conoscerà uno stile giornalistico simile a quello della Cina, con censura, auto-censura, e temi troppo "delicati” per essere menzionati sulla pagina? Ci saranno anche sull’Scmp le lunghe lodi ai leader e i silenzi sulle notizie considerate sconvenienti? È l’ennesimo inizio della fine? Per il momento, ovvio, è ancora troppo presto per pronunciarsi, ma il pranzo di ieri si è concluso con un discorso talmente piatto da essere proprio triste. Wang, salta fuori, non è quel che si dice un oratore brillante: ha negato di essere un membro del Partito Comunista Cinese, ma confermato di esserlo di quella "Conferenza Politica Consultativa del Popolo Cinese” che ha la funzione di "consigliere” del Partito, a cui sono invitati attori, persone famose, membri di gruppi etnici minoritari, accademici, ecc., per dare tacito supporto con la loro presenza. Wang lo è per la regione del Jilin nel nord-est cinese che gli ha dato i natali: "per rendere orgogliosi i miei genitori”, dice, senza nemmeno scherzare, "e per ripagare la mia città di tutto quello che ha fatto per me”. Poi racconta di sé, di come ha iniziato la sua esperienza giornalistica al "China Daily”, il quotidiano di lingua inglese della Cina, dove viene scritto quello che Pechino vuole che gli stranieri sappiano del paese, poi è stato all’estero con una borsa di studio, e infine è venuto qui. Ma non è davvero uno di quei giornalisti coraggiosi, bene o male finiti nella dissidenza per il loro lavoro di denuncia: no, è il classico bravo ragazzo diventato adulto, che vuole fare bene ma non fare scandalo e che ridacchia dicendo: "Quando lavoravo in Cina sapevo moltissime cose di cui non potevo scrivere. Adesso che sono qui, posso scrivere, ma ormai le notizie interne non le ho più!”.
Invece oggi sono andata ad ascoltare Cao Ri, il direttore della Chinese Central Television, che sta investendo circa tre miliardi per espandere all’estero e diffondere "una visione del mondo con occhi asiatici”, e per poco non litigavamo. Lui, che prima se l’è presa con un’altra giornalista che gli aveva chiesto se fosse un membro del Partito, dicendo che, davvero, noi occidentali, che banda di ignoranti! "La Cina è tanto, tanto cambiata, come possiamo pensare che una posizione come la sua possa essere occupata solo da un membro del Partito? Certo, se uno è membro, è meglio, ma non è davvero una necessità!”, dice. Gli ho chiesto se potevamo scambiare due parole a quattr’occhi, e gli dico: "Ma insomma, lei è nel Partito o no?”. E lui: "Sì, ma non è necessario”. Poi mi dice che lui è consapevole dei problemi della Cctv (anche se la parola "censura” non è mai stata pronunciata), ma spera che un giorno le cose saranno diverse, è ottimista, e la Cina "cambia tanto in fretta”.
Volevo dirgli che politicamente mica tanto, però, invece, ho cercato di avere una conversazione più sottile -con un risultato risibile. Gli dico: "Volete competere con la Bbc e la Cnn, ma non potete nemmeno dare notizia del Premio Nobel per la Pace”, riferendomi a Liu Xiaobo, il vincitore del 2010 che sta scontando 11 anni di prigione per sovversione. Risponde: "Spero che presto potremo dare anche queste notizie, certo”. Poi, parliamo del mestiere di giornalista, che in Cina è considerato particolarmente rischioso, e lì mi sa che devo avergli pestato un callo doloroso: "Non so di cosa stia parlando. Non ci sono minacce ai giornalisti in Cina. Nostri giornalisti imprigionati? Non so di cosa stia parlando. Chen Guangcheng? Non lo conosco”, dice, riferendosi all’avvocato cieco del Shandong, che decine di persone, cinesi e non, hanno cercato di andare a trovare per portargli solidarietà o per fargli un’intervista, e sono finiti tutti picchiati e rimandati indietro.
Gli ho detto di cercarlo su Google, che avrebbe trovato tantissime notizie interessanti sul suo conto, e se ne è andato di fretta, quasi
senza salutare.
Ilaria Maria Sala