Cari amici,
sono rimasta colpita da una notizia, carica di significati e a cui non smetto di pensare dagli inizi di settembre, data dall’agenzia di stampa
Xinhua -premettendo però che è un’agenzia di stampa sui generis.
Xinhua, letteralmente "Nuova Cina”, certe volte può davvero essere un’agenzia di stampa, ma non per questo smette di essere uno dei principali organi di propaganda cinesi. Quindi, le notizie che pubblica si presentano sempre con un ricco sotto-testo da cercare fra le righe, come il breve dispaccio di cui volevo raccontarvi, ovvero, che "400 milioni di cinesi non parlano il mandarino (la lingua nazionale cinese), e una buona percentuale di quelli che lo parlano lo conoscono male”.
La notizia citava Xu Mei, del Ministero dell’Educazione, ed è stata presentata come conclusione di uno studio nazionale sulla questione, preludio a una nuova campagna per la "unificazione linguistica” e per innalzare gli standard nazionali rispetto alla lingua parlata da 1,3 miliardi di cinesi. Fine del dispaccio. Inizio della campagna "unificatrice”.
E io sbigottita.
Un conto, certo, è una maneggevole koiné da dare a 1.3 miliardi di cittadini di una stessa nazione (alcuni un po’ riluttanti, come possono esserlo molti tibetani e uiguri e mongoli, ma lasciamo momentaneamente da parte questa faccenda), un conto sono tutti i giudizi di valore di cui è intriso l’atteggiamento della maggioranza linguistica mandarina nei confronti degli altri, e che si accompagna all’iniziativa "unificatrice”. Inutile dire che per Pechino tutte le lingue parlate da gruppi non riconosciuti come minoranze etniche (e anche su questo termine ci sarebbe da discutere parecchio) sono definite come "dialetti”. In cinese, si dice "tuhua”, ovvero "parlata della terra”, o "fanghua”, "parlata locale”, e nella grande famiglia Han (quella che Pechino ha deciso che comprende la maggioranza della popolazione chiamata "cinese”, in barba a differenze linguistiche, religiose, culturali, alimentari, storiche, ecc.) l’unica lingua a cui è dato l’onore di essere riconosciuta come tale è per l’appunto il mandarino. Che, in origine, è una standardizzazione e modernizzazione del dialetto di Pechino, diffuso nel Paese dalla burocrazia e veicolato dalla lingua scritta (dove sono andata a cacciarmi? Come spiegarvi nella brevità di una lettera che è una fola che i caratteri cinesi siano "uguali per tutti” e letti e capiti nello stesso modo dalle steppe mongole alle palme da cocco dello Yunnan? Vi aggiungo dunque che ogni anno, oltre alle campagne per l’unificazione linguistica, ve ne sono altre per la "rettificazione dei caratteri”, non intesa come la volontà di disciplinare i monelli, ma di mettere al bando i caratteri scritti non standard. Anche quelli che meglio rifletterebbero le parlate locali. L’unico luogo in cui ciò non avviene è Hong Kong, grazie al suo statuto speciale, e alla sua testardaggine cantonese). La reazione a questa straordinaria notizia, che dovrebbe far riflettere sul fatto che non tutti quelli che vengono definiti "cinesi” parlano la lingua chiamata "cinese” -anzi, 400 milioni di questi non la parlano proprio e svariati altri milioni la parlano "male”- e che quindi qualche problema nella definizione forse c’è, è stata molto interessante. Quella ufficiale quasi nulla, a dire il vero, a parte un rullar di tamburi per l’avvio della campagna "unificatrice”. Quella più privata mi sembra degna di esservi raccontata. Proprio la sera in cui è stata pubblicata la notizia ero a cena con un amico di Pechino e sua moglie cinese-americana. Lui, che farebbe l’impossibile per portare la democrazia in Cina, su certi temi mi lascia sempre esterrefatta: "È colpa di questa stronzata di cantonese!”, sbotta con una smorfia quando gli dico dei 400 milioni (anche se a parlare cantonese sono circa 70 milioni "soltanto”, e molti di questi sono bilingui). Sua moglie gli dice "Caro! Come puoi parlare così!”, ma lui le risponde solo con un verso di disgusto. Per lui, che fa l’editore, non c’è nulla di sentimentale rispetto alle lingue, e si tratta solo di togliersi dai piedi tutto quello che non è pratico. Cosa fare di quelli che invece alla loro lingua ci tengono, gli chiedo ridendo, e lui spazza via l’ipotesi con una mano, dicendo che sono contadini ineducati e che se parlassimo ognuno la propria lingua sarebbe una gran perdita di tempo.
Il giorno dopo vedo invece una conoscente di Shanghai, che incontro spesso a uno studio di ceramica dove andiamo entrambe e che vive a Hong Kong con quello che mi sembra il terrore di farsi contaminare da idee politiche non ortodosse, e le chiedo cosa ne pensa. Lei è di Shanghai, ripeto, dove esiste una lingua del tutto incomprensibile a chi parla mandarino, rapida, ticchettante, di cui le persone di Shanghai sono molto fiere -e che lei parla vivace e contenta quando è al telefono con sua mamma, per esempio. Dice: "Ah, è un problema! Solo le persone ineducate non parlano mandarino… In campagna, nelle zone rurali.” Le dico che l’ho sentita parlare volentieri in shanghainese, e risponde: "Quello è solo così! Perché è più espressivo”. Poi mi dice che è stata in vacanza in Corea, cambiando argomento rapida, e che la ceramica coreana deriva da quella cinese. Rispondo amichevole che è "a riprova del fatto che la Cina è una civilizzazione, non un Paese, ma vuole a tutti i costi essere un Paese… Come se la Grecia dicesse che dobbiamo tutti parlare greco, dato il contributo culturale che ha dato alla civilizzazione europea”. Fa un sorriso, dice sì con la testa, ma si vede che la mia frase non le è piaciuta tanto perché se ne va e quando siamo di nuovo vicine la conversazione resta sulla ceramica.
Niente da fare, non sono nemmeno riuscita a intavolare una discussione.
Le persone educate della mia età, e peggio ancora quelle più giovani, hanno completamente assorbito il messaggio governativo che tutto quello che non è "unità” è caos. E non c’è modo di avanzare l’opinione indiana al proposito -in India lo slogan nazionale è "Unità nella diversità”, e pur con tutti gli evidenti problemi indiani, mi sembra uno slogan bellissimo. In Cina sarebbe una bestemmia. Ma in pochi riconoscono che questa enfasi sull’uniformità nasce da una volontà imperiale unificatrice: un impulso coloniale. Un attivo progetto unificatore volto ad appiattire e negare ogni diversità, temuta per l’appunto come se fosse sinonimo di caos.
Ecco, questo mese vi intrattengo con le mie riflessioni un po’ scucite, continuando a dirmi che quattrocento milioni di cinesi che non parlano "il cinese” avrebbero diritto a esprimersi nella lingua in cui preferiscono parlare….
Ilaria Maria Sala
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