Negli ultimi vent’anni nel nostro paese la fecondità è scesa a picco e non tende affatto a risalire come invece, in un modo o nell’altro, è successo negli altri paesi industrializzati.
Questo dato si accompagna ad altre dinamiche recenti che condividiamo con gli altri paesi - maternità sempre più tardive, aumento delle difficoltà a concepire, dilagare del figlio unico- che ci segnalano che siamo di fronte ad un cambiamento davvero epocale della maternità in cui si intrecciano -in modi al momento difficili da dipanare- nuove culture di genere e familiari, fattori biologici e comportamenti sociali e lavorativi. Se il calo delle nascite fosse il portato solo di nuove scelte riproduttive sarebbe anche accettabile, basta seguire i vivace dibattiti sui media e sui social network in cui le donne si accalorano nel rivendicare la propria libertà nel decidere se avere o non avere un figlio e nel negare la presunta superiorità delle madri. Ma le statistiche ci dicono che le italiane vorrebbero fare più figli di quanti fanno (Istat misura periodicamente il gap tra figli "effettivi” e "attesi”). Quindi ci sembra che questo sia un problema che vada affrontato, anche al di là delle preoccupazioni economiche relative al tasso di sostituzione demografico.
In realtà, più che a un destino, come ai vecchi tempi, o a una libera scelta, come si è sperato potesse diventare, per una giovane donna del nuovo millennio fare figli assomiglia a un’impresa molto complicata. Perché ormai l’orizzonte in cui si colloca una maternità è sempre e comunque un orizzonte di lavoro: presente o assente, stabile o precario, di necessità o di realizzazione che sia. Tenere insieme figli e lavoro significa trovare un equilibrio nei tempi quotidiani, negoziare nuovi ruoli di coppia, modificare i capitoli del budget familiare, organizzare un network di servizi e di aiuti: tutte cose difficili quando non impossibili, costose finanziariamente ed emotivamente e che costringono a prendere atto delle carenze del nostro sistema di welfare. E se c’è di mezzo il lavoro, le ricadute di una maternità non sono solo per le madri ma anche per le imprese, soprattutto se sono piccole. Di queste difficoltà si parla poco ma è un errore, perché gran parte della discriminazione che subiscono le ragazze al momento dell’accesso al lavoro e anche nel corso della carriera dipende proprio da costi presunti ma anche da quelli reali -in denaro e soprattutto in carico organizzativo- che le maternità inevitabilmente comportano nei luoghi di lavoro.
Intanto ci sono i costi salariali. Spiace dirlo ma la legge non aiuta: è vero che l’indennità pari all’80% del salario previsto per la tutela della maternità la paga l’Inps, ma poi i contratti impongono che il datore di lavoro integri il 20% mancante e anche, pro-quota, le mensilità aggiuntive e le ferie, quindi ogni madre costa circa il 30% in più di un normale lavoratore. E poi l’azienda deve ogni mese anticiparle il salario, scalandolo dai versamenti contributivi che fa all’Inps per i dipendenti. Ma un’impresa che ha solo due o tre dipendenti -tantissime in Italia- resta a credito con l’Inps (che su richiesta rimborserà ma in tempi lunghi): in questo caso, il piccolo imprenditore che deve sostituire una dipendente in maternità di stipendi finisce per doverne pagare due, per tutti i cinque mesi del congedo obbligatorio (o più se la maternità è anticipata) e a volte non è in grado di farlo.
Questa è solo una parte del problema. Sono forse ancora più "stressanti” per il piccolo imprenditore -come si vede dalle interviste- i problemi organizzativi causati dall’assenza della madre. La sostituzione di una lavoratrice già professionalizzata -a maggior ragione se di qualifica elevata come accade sempre più spesso nel caso delle donne più giovani- è tutt’altro che semplice: in qualche caso bisogna cercare sul mercato esterno e non sempre si trova, in altri addestrare velocemente una collega. Se la lavoratrice dopo la maternità lascia il lavoro, poi, il danno per la piccola impresa può essere incalcolabile. Una buona gestione dell’assenza di maternità diventa così una leva importante: mantenere un buon rapporto con la lavoratrice mentre è assente (al di là della formalità imposta dagli adempimenti previsti dalla legge), fare in modo che trasmetta le sue conoscenze a chi la sostituirà, accontentare le sue esigenze di orario quando rientra, mantenere un buon clima in azienda in modo che quando serve scatti la cooperazio ...[continua]

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