Una Città n° 154 / 2008

Cambogia 2007, tracce dell'orrore

Vincenzo Cottinelli - Cambogia


A chi arriva in battello da Saigon risalendo il Mekong, l’approdo al molo di Phnom Penh offre una moderna riproduzione della scena mitologica di demoni e dèi, buoni e cattivi, che si contendono ferocemente, tirandolo da parti opposte, un lunghissimo serpente. La luce riflessa dal fiume Tonlè Sap, qui poco prima che si unisca al Mekong, è chiarissima e perfino allegra, in contrasto con la cappa di tristezza che grava sulla città. La esprime, questa tristezza, la coppia di giovani immobili alle inferriate anti-suicidio sulla terrazza del Sorya Shopping Center, intenti a guardare la distesa delle case fin verso il fiume. I pochi giardini e gli incroci della città sono invasi da grandi poster trionfali della famiglia reale, Norodom Sihanouk con moglie e figlio: “un re, un despota, di spaventosa piccolezza, incapace di una riflessione intelligente sulla storia di questi anni” (Tiziano Terzani, Fantasmi). Non è questo l’unico emblema del potere visibile in città: qui - come del resto nei paesi e nelle campagne di tutta la Cambogia -  sono frequenti le insegne del Cambodian People’s Party (KPK), l’onnipotente e votatissimo partito, vagamente comunista, che esprime e mantiene al potere dal 1985 il premier Hun Sen, (“misterioso uomo forte del regime”, Tiziano Terzani, Fantasmi) già ministro degli esteri del primo governo instaurato nel 1980 dai vietnamiti, quando liberarono la Cambogia dai Khmer Rossi; ma prima ancora era stato capo di un reggimento di Khmer Rossi. Ne sono passati, di anni, fra strascichi di guerra civile e colpi di stato e negoziati internazionali e compromessi, per arrivare al 2003 e all’istituzione di una “Sessione straordinaria delle Corti Cambogiane” che persegue i delitti dei pochi superstiti della banda di Pol Pot (morto nel suo letto nel 1998) sui quali si è raggiunto un accordo di incriminazione. La fase istruttoria pare ultimata e forse ci si avvia ai dibattimenti nel 2008. In una periferia caotica al di là dell’aeroporto uno smagliante portale in stile Khmer classico, ben guardato da militari, inquadra un lontano inaccessibile palazzo di giustizia. Chissà che, da Angkor Wat, non intervenga il potente Vishnu dalle otto braccia, venerato anche come difensore del diritto e della verità, contro i perfidi caimani che nell’antichità simboleggiavano il male, e che i Khmer Rossi più realisticamente usarono come macchine per eliminare prigionieri, mentre ora a Siem Reap sono allevati ed esportati (vivi!) per farne borse e calzature. Il passato è anche tranquillamente consolidato nei cartelli che indicano il Boulevard Mao Tse Tung, ampia circonvallazione per il traffico in crescita, improprio omaggio alla Cina che dei Khmer Rossi è stata sostegno e approvazione. Il consumismo, anche qui prima di tutto il look, l’abbigliamento, la vita di gruppo, è la molla che muove la città e i giovani in particolare: ingenui manichini, patetici appelli alla patria birra (my country, my beer) sembrano peraltro non smuovere il cipiglio dei demoni del passato, imperturbabili, anzi, piuttosto feroci, come se fossero pronti a colpire ancora, né preoccupare i burocrati protetti dalle rassicuranti immaginette della famiglia reale.
\r Il Futuro? La Pace? Il Buddismo, rinato dopo le proibizioni e le devastazioni, si candida ed è bene accetto, se non altro per antica consuetudine. Ma i bambini hanno gli occhi grandi, smarriti, attoniti.

Campo di sterminio di Choeung Ek: natura, memoria e morte.
Phnom Penh, 26 novembre 2007, pomeriggio.
Non è stato facile farsi portare fuori città, al campo di sterminio di Choeung Ek: la guida, “Mister T”, dipendente del Museo Nazionale, gentile e colto, sembra restio, insiste per dare la precedenza alle visite artistico - archeologiche. Ma alla fine rispetta il programma. Gli chiedo allora quanti anni aveva ai tempi del Khmer Rossi: fra i quindici e i venti. Dunque ricorda tutto, abbassa gli occhi, ammutolisce. Durante il tragitto si stempera, capisce il mio interesse, racconta sobriamente: famiglia di insegnanti, all’arrivo dei Khmer Rossi sono fuggiti in campagna da parenti contadini che li hanno “mimetizzati” e perciò salvati. Ma il padre, prelevato prima, è scomparso senza lasciare traccia. Si muove cauto e silenzioso nel verde soffice della campagna intorno allo stupa strutturato su sei piani di teschi. Non c’è molto da spiegare. “Tutti i miei antichi compagni di pena, con il cranio sfondato, risorgono invisibili e mi circondano, irriconoscibili, mentre imbocco il sentiero che anch’essi avevano preso fino al luogo abominevole della loro esecuzione.” (Francois Bizot,  Il Cancello, pag.261). Camminiamo su strati di corpi sepolti di cui affiorano pezzi di abiti e ossa lisciate dai passi dei visitatori. Non si percepisce un oltraggio, il sentiero è stato tracciato così, forse non c’erano alternative se si voleva offrire una visita completa, forse camminarci sopra è comunque partecipare e ricordare. Le camionate di prigionieri portati qui da Tuol Sleng più tanti altri, migliaia e migliaia. Solo grida: non spari, “solo” bastonate (e altro, per i bambini). I bassorilievi di Angkor, come profezia, riportano.. “le stesse scene di tortura, la stessa gente squartata, fatta a pezzi, impalata, uccisa a bastonate, data in pasto ai coccodrilli” (Tiziano Terzani, Fantasmi, pag.365). L’oltraggio è semmai oggi la smagliante natura, il sole splendido, l’abbondanza di acque intorno. Si vorrebbe il freddo grigio di Auschwitz d’inverno. Solo dentro lo Stupa “Mister T” sembra oppresso e lo fa capire cogli occhi. Ma capisce anche che è giusto che lo si veda e non si oppone a lasciare testimonianza ai miei scatti fotografici. Una lezione. “Mister T.”,  famiglia di insegnanti.