Irena Jagiello, insegnante polacca di 53 anni, vive a Carpi dove lavora come collaboratrice domestica e ha fondato l’Associazione Donne dell’Est.

La mia famiglia è originaria di Cracovia, dove sono nata anch’io. A nove anni però ci siamo trasferiti a causa della salute di mia madre, perché l’inquinamento del fiume che scorreva vicino a casa nostra le aveva provocato un eczema terribile, che non guariva, e anche noi bambine eravamo sempre piene di allergie, così, appena a mio padre è stato proposto il prorettorato di una scuola tecnica in un’altra città, ha accettato. I miei erano entrambi professori universitari; mio padre era laureato sia in filosofia che in ingegneria, mia madre invece insegnava matematica, ma aveva anche la laurea in francese e in astronomia. Questo almeno è quello che so io, perché in casa erano argomenti di cui non si parlava, rientravano tra le cose fatte e basta, non c’era nessun bisogno di dirlo.
La mamma poi ha preso la cattedra di matematica alla facoltà di pedagogia, dove in seguito è diventato rettore mio zio paterno. Mio padre si è sposato tre volte, poveraccio, ha fatto tanti bambini, eravamo 12. Dalla prima moglie aveva avuto 3 figlie, molto più grandi di me. Una di loro adesso vive negli Stati Uniti; sia lei che il marito erano docenti all’università, ma quando hanno vinto il visto per gli Usa, in una di queste lotterie che si fanno periodicamente in Polonia, hanno deciso di andarsene là. Lei ha finito la sua vita professionale come donna delle pulizie ed è contenta, perché ha potuto dare ai suoi figli delle opportunità impensabili in Polonia. Erano andati via proprio per soldi: al culmine della carriera scientifica avevano solo di che vivere. Anche la terza figlia è negli Stati Uniti, ma lei era stata deportata per motivi politici. Lavorava per Solidarnosc, che allora era clandestino, non riceveva neppure uno stipendio e l’ex marito era alcolizzato, allora per poter mangiare almeno una volta al giorno veniva da noi coi due figli. Finché un giorno del 1982 sono spariti, così, da un giorno all’altro, senza dirci nulla. Mio padre ha iniziato a cercarli ovunque, la casa era sigillata, i vicini non sapevano niente, ci dicevano solo che era andata via. Solo molto dopo abbiamo saputo che l’avevano portata alla frontiera con un cambio di vestiti e il passaporto di sola andata. Nella sua prima lettera infatti, arrivata dopo due anni, si poteva leggere solamente che stava bene; tutto il resto era stato annerito con l’inchiostro, anche l’indirizzo di provenienza. I bambini stavano da noi, mio padre li aveva ritrovati in un orfanotrofio, lei li ha riavuti solo nel ‘94.

Io ho fatto l’università a Cracovia, romanistica. A 21 anni avevo deciso di fare un periodo di studio in Francia, come usava per le studentesse di lingue, i miei mi hanno trovato l’invito e, quando sono partita, mi hanno dato l’intero stipendio di mio padre: 65 dollari. Era il 1975, l’anno in cui 150.000 giovani polacchi sono usciti dal paese col permesso di studio e non sono più rientrati dalle vacanze. Per loro quindi era pericoloso avere una figlia all’estero, continuavano a scrivermi di tornare; io non ci pensavo proprio, avevo cominciato gli studi alla Sorbona e la Francia mi piaceva moltissimo. Già appena scesa dall’aereo avevo avuto un vero shock: l’aeroporto era pieno di colori, ero rimasta abbagliata da tutta quella brillantezza, dalla pulizia e dalla bellezza che avevo intorno, non potevo neppure paragonarlo al posto da cui venivo. C’era persino un pappagallo che mi parlava francese... non avrei più lasciato quel posto. Invece nel ’76 è scoppiata un’influenza tremenda, che ha fatto anche dei morti. Mi sono ammalata anch’io, ma non volevo assolutamente tornare in Polonia, perciò non ho detto niente a casa. Non so come sia successo, ma per i postumi dell’influenza la pancia è diventata sempre più gonfia e, a un certo punto, sono stata ricoverata d’urgenza.
Mi hanno operato, dopodiché sono rimasta per giorni con l’ago della trasfusione in un braccio e quello della flebo nell’altro, ma non volevo informare i miei, anche se in quelle condizioni non avrei certo potuto lavorare per mantenermi e neppure studiare, non riuscivo neanche più a camminare! Alla fine la mia mamma ha saputo tutto e mi ha imposto di tornare a casa, mi ha fatto il biglietto aereo e mi ha detto che era costato tutto lo stipendio di un mese, quindi se non fossi tornata li avrei costretti a fare la fame per niente. Ho preso l’ae ...[continua]

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