Mi chiamo Reza e sono nato a Ghazni City, in Afghanistan.
Studiavo prima che si insediasse il regime dei talebani, ma una volta volta arrivati, il loro primo proposito fu di chiudere le scuole, privando la nostra gente dell’istruzione e di tutti i servizi. Quando occuparono il mio paesino, mio padre decise di mandarmi in un posto sicuro per farmi continuare gli studi e si mise in contatto con un amico che viveva in Pakistan, che accettò di accogliermi in casa sua e si diede subito da fare per trovare una scuola. Purtroppo, non avendo io i documenti necessari -ero entrato illegalmente in Pakistan- non riuscì a iscrivermi da nessuna parte.
Persi così un anno, allora chiesi all’amico di mio padre di aiutarmi a trovare qualcosa da fare. Avevo undici anni e un gran desiderio di tornare a scuola.
Nel villaggio in cui viveva questo signore non c’era telefono così dovette scrivere due righe a mio padre per chiedergli consiglio su che cosa fare, lì non avevo chance. Mio padre allora gli spedì dei soldi per farmi emigrare in Australia. Siccome ero ancora piccolo, quell’uomo cercò qualcuno disposto a mettermi nel suo passaporto come fossi suo figlio. Trovò un “agente” disposto ad accompagnarmi e dopo averci fatto una foto preparò un passaporto falso. Ci comprò anche un biglietto per la Malaysia e ci accompagnò al Karachi International Airport dove c’imbarcammo per Kuala Lumpur.
Sapevamo di poterci fermare tre settimane, ma furono sufficienti due, e riuscimmo a trovare una persona disposta a farci arrivare in Indonesia con un’imbarcazione. Infine prendemmo l’areo per Jakarta, la capitale, dove ci aspettava il nostro agente afgano. Eravamo in sette, fummo divisi in due gruppi; i miei due amici vennero destinati all’altro gruppo. Andammo all’aeroporto, ma quando la polizia ci fermò, i nostri documenti non andavano bene. Fummo fermati assieme a circa cinquanta afgani e quaranta iracheni.
Il giorno successivo l’altro gruppo si imbarcò per un’altra isola dell’Indonesia, dove la polizia li chiuse in un altro campo. Il mio amico riuscì a scappare e rifugiarsi a Bali, l’isola indonesiana più vicina all’Australia. Erano circa centoquaranta quando presero il mare per l’Australia, in un’imbarcazione vecchia e di legno. La nave naufragò e alcuni furono salvati dalle forze indonesiane, gli altri affogarono.
Io rimasi rinchiuso per sette mesi. Mangiavamo un piatto di riso due volte al giorno. Continuava a piovere e dai bagni usciva dell’acqua sporca. Trascorrevamo tutto il tempo a pulire i pavimenti. Eravamo sotto il controllo dell’Unhcr e dello Iom. Fummo anche interrogati ma ci fu negato qualsiasi permesso. Non è che non fossimo idonei, il fatto è che l’interprete era iraniano e non era in grado di tradurre.
Dopo sette mesi ripetemmo la richiesta di essere trasferiti in qualche albergo, come gli altri rifugiati, sparsi in varie città, ma l’Indonesia era troppo povera per farsi carico di noi, anche se lo Iom doveva pagare per noi. La gente però non ne poteva più della prigione, per cui dopo sette mesi scappammo: non avevamo commesso alcun crimine e volevamo vivere come persone normali. La polizia ci trovò e spedì cinque di noi in un carcere per criminali, noi invece rimanemmo altri cinque mesi rifugiati in quel centro di detenzione.
Dichiarata la fine del regime dei talebani, Unchr e Iom ci incoraggiarono a tornare nel nostro paese. Oltretutto nel 2003 l’accordo tra Unhcr, Iom e Indonesia venne sospeso. Insomma sembrava comunque preferibile tornare a casa, il nostro paese ormai era sicuro… Decisi così di tornare in Afghanistan dai miei genitori. Non avevo più saputo nulla di loro, neanche se erano ancora vivi…
Ma quando tornai non c’era più nessuno, al loro posto trovai degli sconosciuti. Provai a chiedere della mia famiglia ma mi dissero che mio padre aveva venduto tutte le nostre proprietà ed era fuggito all’estero col resto della famiglia. Però non sapevano dove…
Decisi allora di tornare in Pakistan illegalmente, alla ricerca dell’amico di mio padre, ma anche la sua famiglia non c’era più, era rientrata in Afghanistan. Dormii nella moschea per qualche giorno, poi mi trovai un lavoretto.
Cominciai a vivere col mio padrone, a casa sua, lavoravo in un negozio di vestiti, dieci ore al giorno, e finito il lavoro seguivo un corso di inglese per un’ora e mezzo. Poi andavo a un corso di computer. Solo al venerdì facevo vacanza e andavo in giro alla ricerca della mia famiglia...
Alla fine decisi d ...[continua]

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