Qual è il suo giudizio sulla sentenza della Cassazione che ha condannato Sofri, Bompressi e Pietrostefani, alla luce delle motivazioni dove si parla di mancato pentimento, di un rimorso che non c’è stato?
E’ una sentenza vergognosa, ma del resto non bisognava aspettarsi niente di diverso. In aggiunta, c’è un elemento di assoluta illogicità che ha spinto qualcuno a parlare di sentenza suicida. E’ incredibile la sottolineatura del mancato pentimento, del mancato rimorso in nome del quale si rifiutano le attenuanti. Anche ammesso che fossero colpevoli, il cosiddetto mancato pentimento non dovrebbe comunque incidere sulla pena, perché il nostro non è un processo inquisitorio, l’imputato ha il diritto di difendersi; ma in questo caso gli imputati si sono sempre protestati innocenti. Insomma, non c’è neanche bisogno di sottolineare il segno di assoluta rozzezza intellettuale e culturale della sentenza della Cassazione.
L’altro elemento abbastanza strano che lascia interdetti è la valutazione della sincerità del pentimento di Marino. Questa è una sentenza di legittimità, e quindi non avrebbe dovuto entrare nel merito della sincerità, o non sincerità, del "pentito". Le sentenze di Cassazione giudicano il diritto, per cui in questo caso avrebbe dovuto soltanto valutare la logicità della motivazione appellata e l’applicazione dei criteri di valutazione della prova previsti dalla legge, fra cui quello previsto dall’articolo 193 del codice di procedura penale che prevede la necessità di riscontri esterni alle dichiarazioni del collaboratore. Viceversa, mi sembra -io non l’ho letta integralmente, ho visto soltanto i passi che sono stati riportati sui giornali- che la sentenza parli della sincerità e della credibilità di Marino, entrando così nel merito, il che mi sembra un elemento improprio, uno sviamento, perché non è competenza della Cassazione esprimere giudizi siffatti. Purtroppo, questa è una sentenza definitiva e il fatto che la motivazione sia così aberrante e sgangherata non cambia le cose, anzi rende ancor più evidente l’ingiustizia che è stata commessa. Una sentenza definitiva non lascia possibilità, salvo la grazia d’ufficio, che pure il nostro codice prevede proprio per situazioni di questo genere, o la revisione del processo nel caso emergano altri elementi di prova che non sono stati valutati, una revisione che comunque esigerebbe tempi molto lunghi. E’ in casi come questo che si mostra la ferocia della giustizia.
Questo processo è sintomatico di una prevenzione verso l’estrema sinistra di allora, di un pregiudizio politico che perdura, ma è anche emblematico, per tanti aspetti, della situazione della giustizia italiana per la quale ormai sembra valere solo la parola di chi è reo confesso di gravi reati…
Questo è certamente un processo contro degli imputati simbolo del ’68 e di Lotta Continua in particolare; ma non è tanto l’aspetto politico che, secondo me, ha giocato, qui; purtroppo ha giocato, e mi pare che lo stesso Sofri ne parli, un partito del pregiudizio, una prevenzione accusatoria che probabilmente si è consolidata nel tempo per la necessità di non ammettere errori e magagne commessi nel corso del processo.
Insomma, se qualcuno cercasse delle ragioni per sostenere la separazione delle carriere fra il giudice e l’accusa, fra il giudicante e il pubblico ministero, il processo Sofri gliene fornirebbe a iosa: qui abbiamo avuto una subalternità dei giudici nei confronti dell’accusa e di una procura che ha sempre impugnato tutto, anche la sentenza suicida.
Teniamo presente che una sentenza suicida è il massimo della scorrettezza deontologica per un magistrato giudicante: un giudice che, in contrasto con la deliberazione, in questo caso assolutoria, del collegio di cui fa parte, facendo leva sulla nuova procedura penale che prevede l’illogicità e quindi la contraddizione fra dispositivo e motivazione come causa di Cassazione, scrive la motivazione praticamente in modo da minare la sentenza emanata e pregiudicare la decisione della Corte di cui fa parte. Ora, non so come sia effettivamente andata: certamente, la procura aveva il diritto-dovere, come dicono, d’impugnare una sentenza assolutoria, fatto sta che la Cassazione è intervenuta proprio perché ha ravvisato questa contraddizione. Così, con un piccolo imbroglio, è stato vanificato in sostanza ...[continua]
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