Quest’anno ricorre il cinquantenario della fondazione di Magistratura democratica. Ci può dire, per sommi capi, quale fosse la situazione di allora della magistratura, per arrivare poi alla situazione di oggi...
Entrai in magistratura quasi per caso. Ero assistente di filosofia del diritto, a Roma, e decisi di fare il concorso. Magistratura democratica esisteva già da tre anni, dal 1964. Il mondo giudiziario di allora era totalmente diverso da quello di oggi: ancora gerarchizzato, dominato dall’alta magistratura formatasi sotto il fascismo, composta in gran parte da giudici reazionari o peggio fascisti. Ricordo bene il mio primo incontro con Md. Mi aveva impressionato, durante il tirocinio alla Procura di Roma, la facilità con cui, per delle sciocchezze, venivano spiccati i mandati di cattura. Avevo quasi deciso di dimettermi. Andai dal procuratore della Repubblica per esprimergli la mia riprovazione di cittadino circa il modo in cui veniva amministrata la giustizia e lui mi disse: "Ma no, resta...” e mi mandò da Ottorino Pesce, una persona straordinaria che era allora, a Roma, l’esponente più attivo di Magistratura democratica. Conobbi così Md e perciò non solo rimasi, ma scoprii un nuovo modo di essere magistrato: un modello alternativo che in quegli anni teorizzammo e cominciammo a praticare.
Anche allora la magistratura era unanime nel rivendicare la propria indipendenza. Di fatto, tuttavia, gravitava sostanzialmente nell’orbita del potere. Il Consiglio superiore della magistratura era stato istituito solo nel ’58, e prima di allora l’ammissione al concorso in magistratura era condizionato alla "buona condotta”, certificata dalle informazioni di polizia, positive per i "benpensanti” ma non per i candidati di cui fossero note le opinioni di sinistra. Sono convinto che il rinnovamento della magistratura avvenuto con la mia generazione si debba anche alla soppressione di queste assurde informazioni ad opera di uno dei primi provvedimenti del Csm. Neppure l’indipendenza interna, d’altro canto, era allora garantita: c’erano i concorsi interni, la carriera, le valutazioni delle sentenze in occasione degli avanzamenti da una funzione all’altra, il tutto affidato all’alta magistratura. Ebbene, noi rivendicammo l’uguaglianza dei giudici, che è scritta nell’art. 107 della Costituzione -"I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”- e la loro indipendenza anche interna, stabilita dall’art. 101: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Di qui la nostra battaglia per la soppressione di qualunque carriera giudiziaria perché incompatibile con la Costituzione.
La scoperta e la rivendicazione da parte dei magistrati progressisti della Costituzione come principale fonte di legittimazione sia della legislazione che della giurisdizione era già avvenuta nel 1965, nell’importante congresso di Gardone dell’Associazione nazionale magistrati, che certamente segnò una svolta nella storia della magistratura. Si scoprì, allora, la distanza tra la Costituzione e la legislazione ordinaria che era ancora, a cominciare dai codici, in prevalenza di origine fascista. Fu questa divaricazione tra la Costituzione e il restante diritto vigente il principale tema della nostra riflessione sul ruolo del magistrato: prendere sul serio la Costituzione richiedeva che non ci limitassimo a una burocratica e acritica applicazione della legge, ma che dovessimo interpretarla alla luce dei principi costituzionali e, in caso di contrasto, eccepirne sempre l’incostituzionalità di fronte alla Corte costituzionale.
Quelli, del resto, erano gli anni della stagione sessantottesca, della contestazione e anche della massima fortuna del marxismo all’interno della sinistra. Molti magistrati di Md si dicevano marxisti. Il loro, però, era un marxismo che si coniugava interame ...[continua]
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