Tra i molti libri sulla Grecia antica, ricordiamo Il cacciatore nero. Forme di pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco antico (Feltrinelli) e, con Jean-Pierre Vernant, i due volumi Mito e tragedia nell’antica Grecia (Einaudi). Ha inoltre scritto Il buon uso del tradimento. Flavio Giuseppe e la guerra giudaica (Editori Riuniti).
Vidal-Naquet ha ingaggiato anche una dura lotta contro i negazionisti e i revisionisti, in particolare con il libro Gli assassini della memoria (Editori Riuniti), dedicato alla madre. Si è infine molto occupato del conflitto israelo-palestinese, prendendo fin da subito posizione per uno Stato Palestinese. E’ stato direttore de l’École des hautes études en sciences sociales (Ehess), e ha insegnato negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Italia.
Le sue memorie sono state raccolte in due volumi: La brisure et l’attente, 1930-1955 e Le trouble et la lumière, 1955-1998 (Seuil/La Découverte). Il suo ultimo libro è L’Atlantide. Petite histoire d’un mythe platonicien, Les Belles Lettres, 2005.
Come si poneva nella vostra famiglia il problema dell’assimilazione?
Sono nato a Parigi in un quartiere molto borghese, mio padre era avvocato, mia madre era originaria della comunità ebraica del Comtat Venaissin; la questione dell’assimilazione non si poneva per noi: eravamo francesi e basta. Certo sapevamo di essere ebrei ma, quando chiedevo cosa significasse, la risposta era che quella ebraica è la madre di tutte le religioni.
Non ebbi una vera e propria educazione religiosa, mio padre quando avevo 11 anni mi disse di essere ateo, gli chiesi chi mi avesse creato e lui indicando mia madre rispose: "Noi!”.
C’era poi una forma di simpatia per il protestantesimo, che per noi significava l’Inghilterra. Che anche la Germania fosse protestante non ce ne rendevamo conto. Ricordo che un giorno mi disse: "Se sopravviveremo ci convertiremo all’anglicanesimo”. Nel ’40 la nostra sola speranza era la vittoria dell’Inghilterra, solo in seguito subentrò l’America.
A segnarmi fu il racconto che nel ‘41-42 mio padre mi fece dell’affare Dreyfus. A sbalordirmi nell’affare Dreyfus non era la parte iniziale, bensì il processo di Rennes. Dopo la cassazione del caso, a Rennes lo condannano di nuovo ammettendo delle circostanze attenuanti: ma se aveva tradito non c’era bisogno di circostanze attenuanti, se non aveva tradito non c’era ragione di condannarlo.
Mio padre a quel tempo pensava che i grandi criminali fossero, oltre Pétain e Laval, i tedeschi. Nel suo diario parla della strage degli armeni e scrive che sono i tedeschi ad aver suggerito ai turchi di massacrare gli armeni (che è falso, i turchi non avevano bisogno dei consigli dei tedeschi). Fui anche considerato un traditore dagli armeni il giorno in cui difesi l’elezione di Gilles Veinstein al Collège de France dichiarando che Veinstein, un professore di turcologia di origine ebraica, era accusato ingiustamente di negazionismo relativamente alla strage degli armeni. E’ curioso, mi hanno accusato di essere complice di un negazionista quando per tutta la vita ho difeso la causa degli armeni. ...[continua]
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