La mia storia è ancora, anche per me, una questione irrisolta perché posso vederla da diversi possibili approcci, ma il fatto fondamentale è che, ad un certo punto della mia vita, mi sono imbattuto in una tradizione, lo Zen, che ai miei occhi di allora risultava scevra da rituali e impianti liturgici e mirava dritta al cuore dell’uomo. Mi sto ancora chie­dendo che cosa fa sì che  ad un certo punto ci imbattiamo in un elemento che diventa significante per tutta la nostra esistenza. Facendo riferimento alle sacre scritture che narrano della vita del Buddha, vediamo che lo esaltano come co­lui che era arrivato ad un certo punto cruciale, dopo un’ascesi strenua, dopo infinite rinascite fino all’ultima nascita ed all’illuminazione. Di fatto la nostra vita non è piovuta dal cielo, ha una sua lunga storia che affonda le radici nel pas­sato e che già, in potenza, sembra portarci verso il senso stesso della vita, quindi al risveglio, all’emancipazione fi­nale. La storia di Buddha è un po’ la storia di questo.
Scendendo invece alla mia biografia, non so per quale motivo in particolare, verso i quindici anni entrai in contatto col mondo del judo e delle arti marziali e attorno ai diciott’anni, dopo anni di pratica e di studio, diventai per due volte campione nazionale juniores. Il successo agonistico mi aveva però soddisfatto per metà, anzi mi aveva  lasciato la bocca amara. Fu allora che entrai in contatto con Cesare Barioli, un allenatore di Milano che è stato una delle figure più significative della mia vita. Barioli, grazie ad una sensibilità molto speciale, aprì in me la possibilità di avvicinarmi allo Zen, che è la dottrina più vicina all’ambiente culturale delle arti marziali. Io ricercavo qualcosa in più del successo agonistico e Barioli ebbe l’idea di invitare a Milano un maestro giapponese, Taisen Deshimaru, ordinato monaco a cinquantatre anni, dopo aver avuto moglie e figli. Era il I967 e di lì a poco sarebbe diventato il mio maestro. Oggi penso che questo angelo nero seppe ben interpretare la re­altà di quegli anni, del ’68, e sbarcò là dove nessuno più credeva. Io venivo da una famiglia socialista, ero rimasto af­fascinato dai contenuti dottrinali del marxismo, in un momento in cui il comunismo non era ancora molto popolare fra i giovani, ed in seguito mi ero interessato all’anarchismo e alla musica jazz. Tutto questo si muoveva verso una libertà,  una spontaneità della mente e del cuore, e verso una sensibilità particolare che ha favorito il contatto concreto e felice con questo maestro che poi, nel 1975, mi ordinò monaco novizio. Così decisi che questa sarebbe stata la mia vita. Seguii il mio mae-stro varie volte in Francia, dove aveva impiantato una grossa missione che aveva diramazioni un po’ dovunque in Europa, in Africa e nelle Americhe. Nel 1982 lui morì e questo mi diede lo spunto per riconside­rare la mia maturità in campo spirituale. Pensando che non fosse ancora sufficiente, trovai fra alcuni suoi condiscepoli il mio secondo maestro, Narita Shuyu Roshi, dal quale, nel I983, ricevetti la legittimazione. La “legittimazione”, cioè la successione dharmica, è una peculiarità del Buddhismo Zen; è l’”espe-rienza del risveglio” legittimata grazie ad una successione ininterrotta fra maestri Zen che risale fino a Buddha. In questo percorso ero mosso da qualcosa, penso una  profonda vocazione al problema esistenziale, già presente in me dai primi anni di vita; un tesoro da coltivare per un po’ rimasto in ombra e poi riemerso. Il momento delle arti marziali forse è servito come primo passo; una sorta di iniziazione dal disagio adolescenziale al mondo adulto. Infatti l’amore per le arti marziali è andato scemando fino a qu­ando, nell’83-84, l’ho abbandonato perché non riuscivo più a dedicarmi ad esso per via degli impegni della mia nuova condizione. Comunque non so formalizzare sino in fondo cosa mi muovesse, il disagio che sentivo.
Fin da piccolo so che l’uomo deve morire, che io devo morire e, appassionato lettore di Blaise Pascal, mi sono reso conto che il pen­siero è il grande tesoro dell’uomo, il mio grande tesoro. Da tutto questo è nata la mia decisione di intraprendere la via contemplativa, quindi eminentemente pratica.
Diceva che nel '68 un “angelo nero” è arrivato dove nessuno più credeva, ma non è anche vero che c’è stato uno degli ultimi tentativi di mutare le cose proprio perché si aveva fede in una possibilità diversa di vita?
Io non so se posso dire di essere un figlio del ’6 ...[continua]

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