Il Living, fondato ed animato dalla coppia Julian Beck e Judith Malina, ha rappresentato fin dal suo nascere, nel 1951, una rivoluzione nell’ambito teatrale. Ma non è stato solo questo. Il Living, con la sua scelta di fare del teatro un’arma politica senza che le scelte politiche piegassero alle loro regole la ricerca poetica, ha messo in pratica, quotidianamente e contemporaneamente, lo spirito di un’epoca e utopie senza tempo. La comunità come “tutto” in cui l’individuo venga in qualche modo esaltato, il viaggio nello spazio fisico del mondo e nello spazio simbolico delle culture, la ricerca di una dimensione più autentica di se stessi e degli altri si è sempre accompagnata, per la “compagnia/comune” del Living Theatre, con la “messa in scena” -cioè il rendere visibile a tutti in modo drammatico, radicale- di tutto questo. E non poteva essere diversamente perché l’esperienza, se è tale, non può essere un fatto privato, ma deve coinvolgere anche tutti coloro con cui in qualche modo ci si relaziona. Per questo il Living, per una intera generazione, è stato non solo un teatro, ma un mito vivente. I miti non mutano e forse avremmo desiderato che anche il Living fosse così, vivente ma immutabile, quasi a rappresentare che una parte di noi, pur passata, era sempre presente. Ma se una cosa è vivente è suo destino mutare e nel 1985, per un cancro, moriva Julian Beck ed in qualche modo il mito pareva incrinarsi, ripiegarsi su di sé in sintonia col raggricciarsi dei tempi. Invece, mutato ma uguale, il Living ancora vive. Hanon Reznikov, membro del Living fin dagli anni ’60, ha preso il posto che fu di Julian Beck  e ancora la ricerca e la sperimentazione continuano, nel teatro e nella vita.

Tu, Julian e molti altri membri del Living Theatre avete origini ebraiche. Cosa hanno significato per voi queste radici, le avete rifiutate o in qualche modo si sono travasate nelle vostre scelte politiche ed esistenziali?

Malina. Nella Bibbia si racconta questa bellissima, triste, storia che non è molto conosciuta perché la si ritiene una specie di vergogna. E’ la storia della tribù di Korah, che è un po’ un “padre” dell’anarchismo. Nel deserto Mosè e suo fratello Aaron erano i soli ad avere il diritto di entrare nel Santuario, nel santa sanctorum voluto da Dio. Un giorno Korah e la sua famiglia dissero a Mosè: “Dio ha detto che noi siamo santi perché facciamo parte del popolo santo, perché allora solo tu e la tua famiglia potete entrare nel santa sanctorum? Vogliamo poter entrare anche noi”. Questa richiesta fece arrab­biare Dio ed infatti, la notte successiva, la terra si aprì ed inghiottì tutta la tribù di Korah. E questo solo perché lui aveva detto che siamo tutti uguali, “se tu sei santo anche noi lo siamo”. Questo crimine è stato così orribilmente punito perché questa tribù ha osato mettere in discussione l’Autorità, Mosè e l’autori­tà superiore, coloro che stabiliscono chi può e chi non può. Questo, forse, è il primo esempio di una ribellione anarchica, di uno spirito anarchico. Io sono anarchica ed ebrea e questa è la mia interpretazione del passato che ci presentano i rabbini. Anarchica sono diventata molto tardi, forse da quando ho cominciato a parlare di politica con Julian ed abbiamo letto alcune riviste come “Why?” e “Liberation”. Dicevano “il lavoratore ha diritto a tutto ciò che produce”, ma sono anarchica perché sono pacifista, per me il pacifismo è la base di tutto. Questa scoperta del pacifismo risale a quando avevo 12 anni, grazie ad un film sulla vita di un’ infermiera inglese uccisa dai tedeschi in Belgio, nel 1914 o 1915. Era un film sentimentale, il soggetto era stupido, ma alla fine del film c’è la lettera che lei scrisse al padre la notte prima della sua esecuzione. In questa lettera ci sono parole che mi hanno toccato profondamente. In quello stesso periodo mio padre, che era rabbino, si dava molto da fare per rendere cosciente il popolo americano del pericolo rappre­sentato dal nazismo, per far conoscere quello che succedeva in Europa. Fondò anche un giornale, che si chiamava “Judish Zeitgeist”, e ha lottato molto per rendere cosciente la gente. La protagonista del film alla fine scriveva: “Adesso, al cospetto di Dio e dell’eternità, mi rendo conto che il patriottismo non basta. Io non devo odiare e disprez­zare nessuno, nemmeno i miei assassini” ed io ho pensato: questa è la verità. Sono andata a casa piena di emozione e ho detto a mio padre: “Papà è necessario che non odiamo i nazisti ...[continua]

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