Lei fa l’ostetrica e ha realizzato vicino alla sua abitazione una Casa Maternità per promuovere e rendere possibile il parto naturale. Come è nato tutto questo?
Lavoravo come educatrice di ragazzi con problemi fisici e psichici a Busto Arsizio e contemporaneamente mi ero iscritta a filosofia con indirizzo psicologico a Milano, alla statale. Pensavo che poi avrei fatto la psicologa ma non sapevo bene. Tutto iniziò un giorno in libreria dove mi colpì la copertina di un libro di Frédérick Leboyer intitolato Per una nascita senza violenza, in cui c’era la fotografia di un bimbo, sereno, cicciottello e con le manine rilassate. Era il 1978 e avevo 22 anni.

Di Leboyer mi aveva colpito il suo approccio filosofico alla sofferenza che va comunque accettata, un approccio molto orientale, e per quei tempi abbastanza originale e affascinante. Adesso penso che lui sia diventato più morbido, che si sia spostato un po’ più sulla scoperta anche della dimensione dell’amore.
Io chiesi la tesi sulla nascita, perché il mio interesse principale, a differenza di molte altre mie colleghe di quegli anni che invece partivano da un discorso di femminismo, di attenzione per e sulla donna, era orientato soprattutto sul bambino, sull’attenzione e le modalità di accoglimento nel mondo di una nuova vita. Poi questi due aspetti si sono ovviamente uniti, perché quello che è bene per il bambino è bene anche per la mamma e viceversa. La mia tesi poi piacque moltissimo a Grazia Honegger, che allora lavorava per la Red Edizioni e mi propose di pubblicarla.
Così, mentre frequentavo il secondo anno della scuola di ostetricia a Firenze, uscì il mio libro Nascere dolce. E’ un testo che non tratta di ostetricia, ma del significato, per la mamma e per la coppia, della nascita non violenta dal punto di vista psicologico ma anche da quello sociale. Al seguito di Illich e Leboyer, volevo cercare una via alternativa alla nascita vista come istituzione sociale. Adesso si parla di medicalizzazione della nascita, ma in realtà non si tratta solo di questo, c’è tutto un apparato istituzionale che, dalla prima ecografia allo svezzamento, ci dice cosa bisogna fare per essere una brava mamma. Volevo contestare questa accettazione passiva, innanzitutto cominciando a pormi delle domande. Nel libro di Leboyer c’è proprio questa frase, che è anche una frase della cultura indiana: "La risposta è contenuta nella domanda”. Allora bisognava cominciare a domandarsi perché i bambini nascendo soffrono. Dovevamo ripartire di lì: il parto è sofferenza per la donna, la nascita è sofferenza per il bambino? C’è una sofferenza indotta dal contesto che ti stressa, dalla pratica medica, dalla posizione imposta? Allora proviamo a eliminare tutto questo, per tornare a un processo più naturale e istintivo.
Questo discorso ha fatto molta strada ...[continua]
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