Questo anno di pandemia ha totalmente cambiato il tuo lavoro. Ci racconti come?
Quando a fine febbraio 2020 uscì sui giornali la notizia del contagio del paziente zero a Codogno, in ospedale a Brescia stavamo facendo ambulatorio di Diabetologia, perché non erano ancora state date indicazioni di chiusura. Il lunedì successivo iniziarono invece a restringere le attività dell’ambulatorio. L’ospedale ha due sedi, una centrale al suo interno, dove lavoravo, e una distaccata. A fine febbraio ci rendemmo conto che l’ospedale si stava affollando di casi Covid. Le visite diabetologiche però non erano ancora vietate prima del lockdown iniziato l’8 marzo. Poi con il passare dei giorni la situazione iniziò a peggiorare: i reparti del Civile si riempivano di pazienti contagiati e noi, medici e infermieri, eravamo totalmente impreparati. Avevamo a disposizione solo le mascherine chirurgiche per proteggerci, nient’altro.
All’improvviso il Civile si è trovato ad accogliere tutti i pazienti degli ospedali vicini che sono via via “crollati” perché troppo pieni di pazienti Covid. Nonostante l’ospedale disponga di tantissimi posti letto -circa 1200- e possa contare su un grande Pronto soccorso e due rianimazioni, non era sufficiente: le terapie intensive intorno al 10 marzo iniziarono a non bastare più, quindi venne aperta una struttura esterna all’ospedale, una “tensostruttura” che serviva a smistare i pazienti, ovvero fare una specie di triage, perché il Pronto Soccorso era diventata un’altra terapia intensiva. In quel momento io ero ancora in Diabetologia, ma non vedevo più pazienti perché l’attività ambulatoriale era chiusa.
A quel punto sei stata spostata all’interno della tensostruttura?
Esatto. Era il 17 marzo. Era stato creato uno spazio per accogliere 70 pazienti contemporaneamente, dove si doveva decidere chi mandare a casa e chi ricoverare. Questo era il mio compito. All’inizio la valutazione consisteva nello stabilire chi avesse bisogno o meno di ossigeno. In quei mesi nessuna scelta è stata fatta a cuor leggero. Spesso anche dimettere un paziente Covid in buone condizioni era difficile, dovevo dirgli di isolarsi dalla famiglia nonostante vivesse in un’abitazione piccola, magari con un solo bagno. Era come sapere di mettere in difficoltà un intero nucleo familiare che inevitabilmente si sarebbe infettato. Qualche paziente mi diceva: “Dottoressa la prego mi ricoveri, io sono solo, non ho nessuno che mi fa la spesa”. Ma io non potevo fare niente. Era frustrante.
Ricordo il primo giorno, eravamo io e un medico del Pronto soccorso, tutti e due internisti, ci guardammo chiedendoci: “Da dove iniziamo?”. Il turn over era continuo: i 70 malati nel giro di 24 ore venivano sostituiti almeno tre volte, per un totale di oltre 200. E a un certo punto il problema era diventato trovare i letti per chi ne aveva necessità.
I turni erano massacranti?
Erano di 12 ore, dalle 8 alle 20, poi avevamo diritto a un giorno di riposo. Il problema era che facevamo un’unica pausa al giorno per pranzare e fare pipì: perché meno spesso ti spogliavi, meno rischiavi di infettarti. Avevo persino cambiato la mia abituale colazione, non bevevo più il the per non dover fare pipì dopo poche ore dall’inizio del turno. Quando rientravo a casa mi spogliavo praticamente sul portone, in modo da buttare subito i panni in lavatrice, e ho la fortuna di vivere sola, quindi non rischiavo di infettare nessun altro.
Ho lavorato all’interno della tensostruttura fino a fine aprile. A un certo punto il Civile era diventato il più grande Covid Hospital del mondo, perché contava il più alto numero di ricoveri Covid contemporaneamente, oltre 900.
Terminata l’esperienza all’interno della tensostruttura sei tornata in reparto?
A fine aprile la situazione dei contagi stava migliorando notevolmente, così come il turn over e il bisogno di posti letto diminuiva. Così all’inizio di maggio sono stata rimandata in Diabetologia. Ero pronta a tirare un sospiro di sollievo dopo quei mesi estremamente stressanti, ma mio padre si è ammalato di Covid. Era andato in pensione il 4 febbraio dopo una carriera in Diabetologia, un mese prima dell’inizio del lockdown. A marzo durante la prima ondata si era proposto come volontario in ospedale, quindi operava in un reparto Covid sempre al Civile di Brescia, dove si è infettato. Ha rischiato la vita, il suo quadro clinico era critico. Ma è stato fortunato perché ...[continua]
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