Già da diversi anni avete avviato un progetto di accompagnamento degli insegnanti nell’ascolto dei ragazzi. Potete raccontare?
Marina. L’idea risale a circa 18 anni fa, quando vennero istituiti i Cic, Centri di Informazione e Consulenza. Una mia collega, ora in pensione, aveva pensato di introdurre questa esperienza anche nella nostra scuola. All’epoca alcuni insegnanti già avevano dei contatti informali coi ragazzi. Io, ad esempio, gestivo la biblioteca, per cui con l’alibi del prestito, del consiglio di lettura, magari venivano fuori i loro problemi, che talvolta erano anche di una certa entità, tipo anoressia, tentato suicidio. Noi però ci trovavamo in grosse difficoltà perché ci mancava la preparazione. Così quando si è presentata l’opportunità di formare delle persone a questo scopo, abbiamo colto l’occasione.
Da allora, una volta al mese ci troviamo con un gruppo di insegnanti e per due ore, due ore e mezzo discutiamo e ci confrontiamo sui casi difficili con la supervisione di Marco Lodi. Il gruppo è formato da otto insegnanti e si chiama "Ciao”, Centro Informazione Ascolto/Accoglienza Orientamento.
Marco. Una precisazione che vorrei fare subito è che in questi momenti non ci occupiamo dei vissuti strettamente personali degli insegnanti. Il lavoro è sempre centrato sulla dimensione professionale. Quello degli insegnanti non è un gruppo clinico, è un gruppo di lavoro.
L’originalità della vostra esperienza sta nel fatto di non aver delegato l’ascolto allo psicologo, ma di gestire il disagio a scuola, in classe e con strumenti didattici.
Marina. E’ così ed è stata una scelta in controtendenza. Già 15 anni fa, infatti, soprattutto nella Regione Veneto, c’era un diffuso uso dello psicologo a scuola.
Il fatto è che lo psicologo viene ogni tanto, di solito fa due o tre colloqui, non di più, ma soprattutto lavora individualmente con la persona tirandola fuori dal suo contesto. Dopodiché noi quel ragazzino ce l’abbiamo per sei ore tutte le mattine. Allora l’originalità, e anche la forza, del nostro esperimento, sta nel fatto che noi abbiamo puntato a migliorare la capacità dell’insegnante di accogliere questi problemi all’interno della normale routine della scuola, in maniera da non dare un aiuto episodico, i tre colloqui, ma, per quanto possibile, quotidiano.
Marco. Un ambulatorio di consultorio familiare a scuola ha sempre un grande successo all’inizio, però poi si ferma, perché è come mettere il distributore di preservativi, cioè lo metti a scuola, però la scuola non interagisce. Invece gli insegnanti sono in prima linea. Di qui l’idea di utilizzare la scuola come contenitore anche di patologie di un certo rilievo. All’inizio di patologie, dopo di culture. Questa è stata l’evoluzione.
Marina. Nella consulenza mensile noi cerchiamo soprattutto delle strategie didattiche, per aiutare questi ragazzi. In questo modo ognuno mantiene il proprio ruolo. Su questo insisto sempre: "Non cerchiamo di fare gli aspiranti psicologi senza esserlo, cerchiamo di fare gli insegnanti un po’ meglio, nel tentativo di aiutare questi ragazzi a crescere”. L’adolescenza è un periodo di passaggio per cui produce sempre problemi: di identità, con la famiglia...
Cosa intendete per "strategie didattiche”?
Marco. Il ragazzo che manifesta un disagio pone sempre una questione ai compagni, alla classe, all’insegnante. Qual è la questione? Che sintomo porta? Che disagio produce? Ecco, nel gruppo si dà una lettura psicodinamica di quello che avviene, però poi si cerca di utilizzare una tecnica didattica per aiutare ragazzo e classe ad affrontare quel tipo di angoscia. Cioè la lettura è clinica, ma lo strumento è didattico. Secondo me, questa è l’originalità assoluta.
In genere quando c’è un problema la prima reazione è: "Lo mandiamo dallo psicologo” oppure "Va dallo psichiatra e prende dei farmaci”. Benissimo, ma intanto a scuola che succede? Quando c’è e quando non c’è. Perché c’è anche il problema di quelli che sono assenti perché sono in una clinica, in ospedale o perché muoiono. Cosa succede alla classe in questi frangenti?
Potete raccontare qualche esperienza?
Marina. Quella che più mi ha segnato, che mi ha cambiato anche, è stata la malattia organica, un tumore alle ossa, ...[continua]
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