Lei ha seguito l’iter che ha portato all’adozione dei cosiddetti "contratti a menù” alla ZF. Può raccontarci intanto di che tipo di azienda parliamo?
La ZF è una piccola grande multinazionale, che conta circa 56.000 dipendenti, ha sede a Friedrichshafen, sul lago di Costanza, in Germania, nella bassa Baviera, nel Baden-Württemberg, la regione più ricca. Era di proprietà del barone von Zeppelin, quello dei dirigibili, che a un certo punto della sua vita ebbe una crisi economica, per cui chiese un sostegno alla popolazione, la quale fece una colletta e gli diede dei soldi. La storia dice che si trattava di 26.000 marchi che all’epoca, parliamo della prima metà del Novecento, era una cifra enorme. L’azienda si risollevò e il barone von Zeppelin alla sua morte lasciò tutto alla cittadinanza come ringraziamento.
Quell’azienda venne poi tagliata in tre: la ZF, che fa l’ingranaggeria, tutto ciò che riguarda la trasmissione; la Maibach, una vecchia azienda che faceva automobili che poi cambiò il proprio nome in Mtu -anche per ragioni politiche: la Maibach era l’azienda che faceva le macchine per Hitler. Infine è rimasta una terza piccola azienda che si chiama Zeppelin, che fa ancora dirigibili, ma ad altissima tecnologia, per rilievi fotografici, per turismo. Ancora oggi, se si alzano gli occhi al cielo, ci sono buone probabilità di vedere nel cielo di Friedrichshafen il dirigibile con la scritta ZF sulla fiancata. La proprietà fa capo a una fondazione che ha come presidente il sindaco di Friedrichshafen. Ecco, è un po’ come se la Fiat fosse di proprietà di una fondazione di cui è presidente Chiamparino.
Quindi la ZF è un piccolo colosso, il secondo fornitore mondiale di sistemi di trasmissione per l’automobile, fornisce Bmw, Volkswagen, Porche, tutte le aziende tedesche insomma. Fornisce anche Fiat, la gamma più alta, la Croma piuttosto che la Lancia. Ma non fa solo automobili. Infatti a Padova non facciamo cambi per macchine, che è la parte più forte, neanche per camion o per elicotteri (i rotori per gli elicotteri li fanno a Friedrichshafen). Noi qui facciamo trasmissioni per imbarcazioni marine, il cosiddetto invertitore, cioè quello che sta esattamente tra il motore e l’elica. La barca notoriamente non ha i freni: bisogna invertire il moto dell’elica per fermare la barca. Si tratta sempre di una trasmissione che ha alberi, ingranaggi, cuscinetti; è una scatola. In inglese si chiama gear box.
La ZF di Padova è l’unica capo divisione esistente nel gruppo ZF fuori dalla Germania.
Come si è arrivati a questo accordo così innovativo sugli orari?
Premetto che in quell’azienda gli orari iniziarono a essere contrattati per la prima volta mi sembra nell’85. Quindi c’è un grosso retroterra culturale da questo punto di vista. Detto questo, l’azienda, a un certo punto, a fine ‘98, cominciò a fare richieste per avere un orario flessibile perché lo straordinario non le bastava più, nel senso che aveva delle oscillazioni, rispetto all’orario normale, del 12-13%. Lo straordinario volontario copriva fino al 4-5%. Insomma, non ce la faceva e andava costantemente in ritardo con le consegne. Il motivo scatenante fu questo.
Noi ci dicemmo disponibili a intervenire, ponendo però delle condizioni: o lo straordinario o la flessibilità. Inoltre andavano forniti elementi di flessibilità positiva anche per i dipendenti. E non gratis. L’azienda accettò.
Cominciammo a discuterne e, a metà del ‘99, arrivammo ad una prima ipotesi di accordo, che però i lavoratori bocciarono. Andammo in assemblea e i lavoratori si espressero per alzata di mano: tutti contrari.
A quel punto rimanemmo per 2-3 mesi nel dubbio se dimetterci tutti visto che i lavoratori non avevano fiducia in noi.
In fondo le esigenze dell’azienda erano reali: lo straordinario non solo non bastava, ma veniva fatto solo in alcune aree (casomai dove non serviva), tra l’altro con un’efficienza molto scarsa. Ma neanche i lavoratori avevano tutti i torti. Loro gli straordinari li facevano per portarsi a casa due lire. Per come si profilavano le cose, chi faceva gli straordinari avrebbe preso meno e chi non li faceva sarebbe stato costretto a farli. Passato un primo momento di disorientamento, capimmo che quella sconfitta poteva diventare, in realtà, un punto di forza. Tornammo dall’azienda spiegando la situazione: "Noi c’abbiamo provato, c’abbiamo sbattuto il muso, i lavoratori c’hann ...[continua]
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