Sono nato il 17 febbraio del 1984 a Lubiana, in Slovenia, perché i miei genitori si erano conosciuti laggiù. Nel 1989 siamo tornati in Bosnia, a Skocic, vicino a Zvornik. Mio padre aveva trovato lavoro a Loznica, non lontano dal nostro villaggio, ma dall’altra parte della Drina, in Serbia.
Nel 1992 ci sono state le prime tensioni, l’inizio della guerra. Il padrone ha detto a mio padre: "Vi do una casa e state qua” e allora ci siamo trasferiti a Loznica. Dopo pochi giorni però abbiamo sentito che in Bosnia era tutto tranquillo e allora siamo tornati a casa.
Lo stesso giorno in cui siamo tornati al paese, il 12 luglio del '92, la notte è arrivata questa formazione paramilitare serba di Simo "cetnik”.
In Bosnia i rom vivevano e vivono nelle case, siamo stanziali. A Skocic i rom vivevano di agricoltura: musulmani, serbi e croati venivano a comprare la frutta da noi. Il paese era tradizionalmente dei rom, ma c’erano anche altri gruppi.
Noi c’eravamo tutti rintanati in una casa: assieme ci sentivamo più sicuri. Eravamo una quarantina. Alla sera si è presentato questo gruppo, sono arrivati con i camion e hanno chiesto soldi, oro, armi e poi hanno iniziato ad uccidere delle persone, hanno fatto cose brutte con le ragazze, anche con mia sorella. Poi hanno caricato le donne e i bambini in un camion e nell’altro gli uomini. Ci hanno portato in un altro paese, a Malesici, dove c’era un bosco. Hanno scavato una fossa poi hanno ucciso le persone e le hanno buttate lì dentro. Io ero ancora sul camion e ho iniziato a urlare: "Voglio vedere la mamma, voglio andare dalla mamma!”. In realtà la mia mamma era scesa dal pullman prima di me con un fratellino più piccolo ed erano già stati uccisi. Loro mi hanno detto: "Adesso vai subito dalla mamma, stai zitto”. Mi avevano puntato la pistola e un coltello addosso. Mi hanno colpito e poi mi hanno buttato nella fossa. Avevo sette anni.
Sono rimasto in mezzo a quei corpi per qualche minuto, poi aggrappandomi ai cadaveri sono riuscito a uscire dalla fossa e mi sono inoltrato nel bosco. Mentre scappavo sentivo dei colpi di pistola. A un certo punto ho trovato una casa abbandonata con le porte sfondate, sono entrato, c’era un cartone di uova e mi sono nascosto dentro e ho dormito lì quella notte.
La mattina dopo appena sveglio sono uscito. Vagando ho notato del fumo che usciva da una casa e mi sono diretto in quella direzione. Quando mi sono avvicinato, ho visto una donna fuori, l’ho chiamata, lei è entrata e sono usciti due soldati con la divisa dell’esercito iugoslavo. Mi hanno dato da mangiare e un po’ d’acqua per lavarmi la faccia. Mi hanno chiesto cosa fosse successo, ma io non ho detto niente. Mi hanno preso per mano e mi hanno detto che mi avrebbero portato all’ambulatorio di Kozluk.
Mentre camminavamo per terra ho visto braccialetti e altri oggetti che appartenevano alla gente del mio paese. A quel punto ho trovato il coraggio di dire ai soldati che mi accompagnavano: "Guardate che qui è successo qualcosa”. Gli ho raccontato tutto.
Quando siamo arrivati all’ambulatorio ho visto gli stessi paramilitari che la notte prima avevano massacrato la gente del mio villaggio. Mi sono aggrappato ai due soldati e loro mi hanno tranquillizzato: "Non preoccuparti, ci siamo qui noi”. Ho riconosciuto subito una ragazza bionda. So che si chiamava Dragana perché li avevo sentiti chiamarla così la sera prima.
Dopodiché, uno dei due soldati è entrato con me in infermeria per farmi curare mentre l’altro è andato a parlare con il comandante di questa unità paramilitare, Simo "cetnik”. C’è stata una discussione tra i due, perché Simo "cetnik” insisteva per farmi lasciare alla loro custodia, che loro mi avrebbero portato in ospedale a Zvornik. Invece il militare dell’esercito ha detto: "No, siamo noi responsabili per lui, dateci un mezzo, altrimenti fermiamo la prima vettura che passa”. Io ero ferito. Alla fine i paramilitari hanno ceduto, gli hanno dato un mezzo e i due soldati dell’esercito mi hanno portato a Zvornik. Hanno aspettato che si presentassero gli osservatori dell’Onu e mi hanno consegnato a loro.
Sono rimasto due anni e nove mesi all’ospedale di Zvornik. Fin quasi alla fine della guerra.
Al reparto di pediatria era un continuo viavai: c’erano sempre bambini nuovi che arrivavano. Ci hanno trattenuto lì tutto quel tempo per proteggerci. Non potendo uscire, mangiavo, dormivo e guardavo la tv. ...[continua]
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