Vorremmo parlare con lei dei cosiddetti "nativi digitali”, cercando di capire intanto chi sono.
La questione nasce nel 2001 quando Marc Prensky inventa questo termine che ha avuto una fortuna forse sconsiderata, ma che pone un problema reale. L’articolo si intitola proprio "Chi sono i nativi digitali?” e innesca un dibattito sulla diversità o meno dei bambini nati negli anni Duemila. La domanda è: esistono o non esistono? Come al solito, il dibattito poi si polarizza in maniera un po’ superficiale, però io sposo la tesi che esistano anche per una ragione, in realtà, scientifica. Gli studi sulla plasticità neurale condotti dagli studiosi di scienze cognitive e di neuroscienze, tra cui lo stesso Rizzolatti, hanno dimostrato che non solo la plasticità neurale è qualcosa di molto più esteso di quanto si credesse, nel senso che non c’è solo nei bambini, ma c’è anche negli adulti e quindi che il cervello si modifica per tutta la vita, ma, in particolare, che le interazioni con gli artefatti culturali (le tecnologie sono artefatti culturali) oppure con la parola, trasformano -letteralmente!- il cervello.
Se questo è vero, è molto probabile che l’esposizione a un ambiente completamente diverso dal precedente (adesso sembra che i tablet siano esistiti da sempre, ma io, che sono stato tra i primi a ordinarlo in Italia, l’ho visto a maggio del 2010) abbia un impatto su questi bambini.
In Italia questa tesi siamo in pochi a sostenerla ma perché siamo un paese conservatore. In realtà basta vedere un bambino che gioca con l’iPad per capire che non sono stupidaggini. Che questo poi funzioni sull’educazione, quello è un altro discorso. Comunque, l’idea è che l’interazione con un contesto culturale che si è trasformato in maniera radicale negli ultimi, diciamo, quindici anni (oggi la tecnologia è onnipresente nelle case e sono diventati tutti schermi interattivi; il meno interattivo, paradossalmente, è quello del computer, che richiede ancora la mediazione del mouse) trasformi proprio non solo le modalità di gioco, ma anche quelle di apprendimento, e in generale il modo in cui i bambini vedono e rappresentano il mondo. O vedono e costruiscono il mondo. Questo in chiave non deterministica, nel senso che serve l’interazione con la macchina, o meglio l’interazione "collaborativa” con la macchina. È difficile vedere un bambino da solo davanti alla console, a meno che non glielo dia il genitore; se li vedi al parco, sono un crocchio attorno alla console o un crocchio attorno al tablet perché così si divertono di più, perché non è che poi i bambini sono cambiati, cioè stare con gli altri gli piace molto di più che stare da soli, che ci sia o che non ci sia la tecnologia. Alcune costanti antropologiche permangono. Infatti, alla domanda: "Qual è la cosa che ti piace di più nel videogioco?”, la risposta è: "Giocare con gli altri miei amici”.
Questa cosa è stata colta anche da altri studiosi. Per esempio, anche Jenkins, l’autore di Culture partecipative, che contesta il termine "nativi digitali” perché è settario, ghettizza, discrimina, riconosce che si è sviluppata una cultura informale diversa, partecipativa, costruita attorno all’interazione con la tecnologia, che deve essere compresa e studiata perché in realtà gli adulti ne sanno poco. Lo stesso quel Paul Gee, di cui adesso è uscito il libro sui videogiochi, che ragiona, appunto, su come le modalità di gioco influenzi anche i comportamenti e le relazioni di scambio tra i bambini.
Provando a entrare nel merito, in che cosa consiste questa radicale differenza?
Io la colloco nelle nozioni relative all’apprendimento. La prima e radicale differenza è che noi siamo figli di Gutenberg e questi bambini e ragazzini sono figli di internet.
Noi, figli del libro, abbiamo studiato, ci siamo fatti una forma mentis costruita sulla parola alfabetica, accompagnata da immagini fisse. Ora, la parola alfabetica, come diceva McLuhan, porta con sé tutta una galassia di rappresentazioni correlate: l’autorità del testo, sacro o meno, implica anche un modello di comun ...[continua]
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