Roberto Mezzina, psichiatra, è direttore del Centro di Salute mentale di Barcola, Trieste. Da anni si occupa, anche a livello internazionale, di organizzazione dei servizi, pratiche innovative, ricerca e formazione. Ha contribuito a fondare, con John Jenkins, la Rete Internazionale delle esperienze-guida in salute mentale comunitaria.

Il concetto di "recovery” è fortemente legato a quello di cittadinanza. Può spiegarci?

L’attenzione per l’autonomia è sempre stato un "vizio” dell’importazione triestina, nel senso che, avendo questa tradizione di una salute mentale in qualche modo aperta alla comunità e di una psichiatria sociale, siamo fortemente interessati a dare valore a un certo tipo di percorso, cioè a quello in cui le persone vengono sostenute dai servizi (in generale, non solo dal servizio di salute mentale) in un percorso di riacquisizione dei diritti di cittadinanza, ma soprattutto di esercizio di questi diritti.
Ciò che mi ha stupito è che questo si è rivelato un aspetto fondamentale anche in contesti diversi dal nostro. L’anno scorso sono stato a un convegno in Australia il cui titolo era proprio "Recovery e cittadinanza”, quindi questo tema è sentito anche in contesti dove il concetto di cittadinanza non è quello europeo, che fa riferimento a un welfare state, a uno stato sociale dove le persone hanno dei diritti esigibili: la casa, il lavoro, ecc. Per noi, i diritti di cittadinanza sono anche i diritti sociali, mentre invece nel mondo anglosassone la cittadinanza è qualcosa di strettamente collegato all’uguaglianza, quindi a una nozione più di base.
Nei paesi nordici, Svezia, Norvegia, ma anche negli Stati Uniti, seppur in una situazione diversa, la recovery è una nozione legata a una situazione di benessere o di relativo benessere molto individuale, cioè la persona si recupera dentro una dimensione privata, senza considerazione per quel capitale sociale che sono le relazioni.
In Italia, invece, le persone intervistate ritengono molto importanti i legami sociali, lo stare in rapporto con situazioni collettive, con la rete di servizi. Nel nostro paese, così come in Europa, questa è una nozione centrale. Anche in Inghilterra c’è stata, per anni, una "Unit” trasversale a tutti i ministeri, che, nel lottare contro l’esclusione sociale in salute mentale, aveva individuato due obiettivi centrali: uno era l’inserimento lavorativo e l’altro era la partecipazione.
Per noi, la questione della partecipazione ai servizi è un nodo cruciale: i servizi sono un pezzo di comunità e noi cerchiamo costantemente di renderli il più possibile umani, attraversabili, dei luoghi dove le persone non solo non vengano respinte, ma possano trovare accoglienza. Accoglienza è un po’ paternalistico, ma, insomma, voglio dire che i servizi dovrebbero essere vissuti un po’ come una casa, non semplicemente il posto dove sta il dottor Mezzina con il suo ufficio. Questo ci intriga ancora oggi: come fare a correggere una rotta disumanizzante, tecnicizzante? Non è facile perché nessuno è esente da queste tentazioni e neanche questo è il paradiso.
Promuovere cittadinanza e autonomia non vuol dire abbandonare le persone a se stesse.
Prima della legge 180 anche in Italia c’era un gruppo di antipsichiatria che sosteneva che bisognava abolire completamente ogni legislazione che riguardava la psichiatria. E quindi aprire i manicomi, punto e basta.
Dopodiché, che le persone avessero il servizio o no non era affar loro. Ancora oggi, in America, ci sono gruppi di utenti organizzati con rivendicazioni analoghe: noi non vogliamo sapere niente dei servizi, che andassero al diavolo, noi vogliamo difendere il nostro diritto a star male, anche a morire per strada. Ci sono anche queste posizioni. Io, chiaramente, non le sostengo.
Già da qui si capisce che questa questione della cittadinanza, che sembra quasi ovvia, non è affatto scontata.
Intanto di mezzo c’è la psichiatria: nonostante la chiusura dei manicomi sia stata realizzata ormai da più di dieci anni, il concetto di cittadino con disturbi di salute mentale stenta a essere accolto, bisogna ancora fare un grande lavoro. È un campo che va studiato e presidiato perché le persone con il Tso possono ancora finire legate in un Servizio di diagnosi e cura. Oppure possono rimanere abbandonate per strada perché alcuni servizi intervengono solo se le persone disturbano, ma se stanno sotto un ponte a morir di fame e nella sporcizia non è affar loro.
Certo, il confine è molto d ...[continua]

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