Thomas Emmenegger, psichiatra e imprenditore sociale svizzero, in Italia da molti anni, è presidente di Olinda, il gruppo di organizzazioni che gestisce il processo di riuso dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Una sua intervista è comparsa nel n. 104 di Una città, maggio 2002.

Sono passati quasi quindici anni dalla chiusura dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini. In questo spazio ora ci sono un ristorante, un ostello, un teatro e tante altre attività.
Il manicomio di Milano, con grandissimo ritardo, è stato chiuso nel 2000. I nostri primi anni di lavoro sono iniziati nel 1994 e si sono focalizzati proprio sulla chiusura e contemporaneamente su una trasformazione dell’area immaginandone un nuovo uso. Il primo obiettivo era decostruire questa enorme scatola nera che era il manicomio, creare delle alternative abitative e lavorative per le persone. Se le alternative abitative erano collocate sul territorio, le alternative lavorative invece erano la leva per pensare il riuso dell’area. Dopodiché si poneva il problema pratico di che cosa fare. Ci siamo sempre detti: "Vogliamo fare un’impresa sociale”, ma cosa vuol dire?
L’idea dell’impresa sociale è nata a Trieste con l’obiettivo di mettere assieme qualcosa che insieme non sembra stare così bene: l’impresa e la vocazione inclusiva. All’inizio degli anni Novanta questo è stato un grande tema: come importare normalità nell’ambito della salute mentale, una normalità in grado di reggere la contraddizione tra impresa e sociale. Ma nessuno sapeva bene come si faceva questa cosa.
La prima domanda che ci siamo posti è stata: perché facciamo le cose che facciamo? Che senso ha oggi fare una cooperativa sociale che fa inclusione? Qui ci si imbatte subito nel dilemma tra le cooperative A, che fanno assistenza, e le cooperative B, che dovrebbero fare inclusione; una distinzione che ha prodotto dei danni perché l’obiettivo dovrebbe essere quello di fare assistenza attraverso un progetto inclusivo; questo le cooperative A non sono in grado di farlo perché hanno questo mandato di "mantenere” una situazione, piuttosto che di farla evolvere; d’altra parte le cooperative B si trovano condizionate da tutti i vincoli e le difficoltà di reggere un mercato diventato molto difficile.
Negli ultimi anni abbiamo sofferto una crescente invadenza e predominanza del discorso economico sul discorso sociale. E quindi di un linguaggio che tendenzialmente parla sempre e solo di una cosa, della crescita e della produttività, non si parla più della disuguaglianza e di ciò che è giusto o sbagliato. Soprattutto non si riflette più su come fare le cose diversamente. Fare impresa sociale per noi significa mettere al centro il soggetto. Attenzione: questo non vuol dire che non sappiamo fare i conti. Il nostro è un discorso soggettivante, che significa innanzitutto interrogarsi su come fare le cose in modo diverso, su come cambiare le politiche, le procedure, le forme organizzative e soprattutto su come far sì che quello che facciamo sia veramente orientato alla singola persona.
Questo ovviamente non può farlo un’organizzazione da sola. Questo è il grande problema che abbiamo di fronte, come fare sviluppo, sviluppo locale oggi.
In Lombardia per esempio nella sanità vige un sistema che opera secondo i criteri del discorso economico, cioè attraverso il finanziamento di prestazioni sanitarie e sociali. È un modello inventato alla Bocconi che ha poi invaso tutto il sistema, dove la persona sparisce e dove tendenzialmente ciò che viene sostenuto sono gli elementi di struttura.
L’intero sistema di accreditamento è una camicia molto ermetica e settoriale, sì piena di risorse, ma troppo stretta quando si tratta di fare salute mentale, dove il sanitario, il sociale, ma anche il culturale, sono così integrati l’uno con l’altro: separare artificialmente questi ambiti e ridurli all’idea che singole prestazioni possano essere pensate nei termini di una "cura” è veramente un’operazione di semplificazione. Che tra l’altro vede uno spreco di denaro inimmaginabile, ma soprattutto un’inefficacia e un’inefficienza enormi.
Voi siete fuori dal sistema dei cosiddetti "accreditamenti”.
Sì, perché noi pensiamo che al centro dei percorsi di cura c’è la singola persona con le sue esigenze. Non è la persona che si deve adattare alle strutture, ma viceversa. Per come la vediamo noi, la singola persona è il vero "titolare” del finanziamento, dopodiché le organizzazioni devono essere flessibili ...[continua]

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