Hai studiato per tanti anni l’immigrazione. Possiamo ripercorrere le principali tappe dei flussi migratori in Italia?
Io sono arrivato all’immigrazione dall’agricoltura e dalla emigrazione. Alla fine degli anni Sessanta mi ero trasferito negli Stati Uniti, come ricercatore, e avevo cominciato a studiare i braccianti agricoli in California, dove era in corso un grande sforzo organizzativo; c’era questo personaggio leggendario, Cesar Chavez, che aveva indetto una serie di scioperi importanti: lo sciopero dell’uva, dei pomodori, della lattuga; all’epoca non c’era un sindacato, c’era questo United Farm workers organizing committee, quindi comitato organizzativo dei braccianti agricoli; solo nel 1972 i braccianti sono entrati nel Afl-Cio, prendendo il nome di United Farmers Workers.
Ai braccianti agricoli tra l’altro ero arrivato attraverso lo studio della povertà; era l’epoca della "Great Society” e delle politiche per l’eliminazione della povertà e dell’ingiustizia razziale. Ma poi i braccianti agricoli erano migranti e lavoravano in condizioni che le nostre mondine non hanno conosciuto. Le loro condizioni erano affini a quelle dei nostri braccianti immigrati, cioè violazione dei diritti sociali e non raramente anche dei diritti umani.
Apro una parentesi: conducendo le ricerche per il mio libro sul Mezzogiorno, sulla violazione dei diritti sociali e umani in agricoltura, mi sono fissato sul paradigma dell’agricoltura ricca con la manodopera povera. L’agricoltura è stata studiata e interpretata complessivamente alla luce dello sviluppo capitalistico americano; un celebre articolo degli anni Settanta era intitolato proprio "Cheap Food Cheap Labour”: se vuoi ridurre i costi di produzione della forza lavoro, devi avere cibo economico; per avere cibo economico, devi avere la forza lavoro pagata ancora peggio. Il rapporto tra agricoltura e lavoro precario è un tema di cui mi sono occupato sempre; in Italia lo studiavo in relazione al Mezzogiorno ed era interessante il fatto che, ad esempio, il caporalato ci fosse in California come nel nostro Sud. Anzi, in Italia, a dire il vero, il caporalato stava declinando. Era rimasto per le ragazze, sostanzialmente. Per esempio, il circolo Lenin di Puglia si occupava delle ragazze che partivano dalle colline del brindisino per la piana di Metaponto.
Tra l’altro spesso c’è un caporale etnico, che cioè appartiene allo stesso gruppo etnico-nazionale degli immigrati. E infatti all’inizio c’era un caporale italiano, vale a dire dello stesso gruppo etnico-nazionale delle ragazze che organizzava. Comunque da noi il caporalato era quasi scomparso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. I maschi, con l’arrivo della meccanizzazione, se la vedevano da soli; era più nel lavoro di raccolta, spesso femminile, che ancora impazzava il caporalato, infatti la Federbraccianti organizzava qualche lotta, qualche manifestazione.
Quindi dagli studi sull’agricoltura e l’emigrazione sei passato all’interesse per l’immigrazione.
In quegli anni un amico e collega, Franco Calvanese, che aveva studiato l’emigrazione, comincia a drizzare le antenne su questo fenomeno nuovo della immigrazione. La prima immigrazione è in parte agricola o prettamente femminile nell’ambito dei lavori domestici (non c’erano ancora le badanti che arrivano nel corso degli anni Novanta). Le lavoratrici domestiche vanno nelle famiglie borghesi o anche piccolo borghesi dove le donne sono occupate; il loro ruolo è per così dire,di "sostituzione”, nel senso che sopperivano alle carenze del welfare, anche se poi c’era pure lo status symbol di avere la cameriera -come si diceva all’epoca- "di colore”.
Emblematicamente se ne trovavano soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, cioè molto ...[continua]
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