Martin Langer, direttore del Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Cure Palliative presso l’Istituto dei Tumori di Milano, è stato volontario in Sierra Leone con Emergency.

A gennaio l’Oms ha dichiarato anche la Liberia libera dall’Ebola. Tu sei stato per qualche tempo in Sierra Leone nell’ospedale di Emergency. Qual è stata la tua esperienza?
Per noi l’Ebola è sempre stato un virus pressoché sconosciuto. Infatti, anche all’inizio di questa epidemia, le uniche indicazioni erano quelle che l’Organizzazione mondiale della sanità aveva tratto dall’esperienza di Msf, Medici senza frontiere, ed erano tutte misure di contenimento. Inoltre, finora le epidemie erano sempre state confinate geograficamente. Credo non ci fosse mai stato un caso nei paesi sviluppati. L’arrivo del virus in Occidente ha fatto scattare la paura e ne ha fatto un problema rilevante per la sanità mondiale. Nonostante la grande mobilitazione, abbiamo assistito a una grande dèbacle dell’Oms, che, un po’ perché non sapeva che pesci pigliare, un po’ per evitare il panico mondiale, solo con grandissimo ritardo ha dichiarato l’epidemia.
Che situazione hai trovato al tuo arrivo?
È importante distinguere tra Ebola malattia e Ebola emergenza umanitaria. Parto dall’emergenza umanitaria, che è stata una catastrofe. Io ho trovato un paese fermo, un paese morto. Il Ministero della Sanità ha dovuto chiudere tutte le attività che prevedevano un assembramento, per cui scuole chiuse, miniere chiuse e tutti disoccupati. Oltretutto in Sierra Leone l’epidemia è arrivata tardi, ma è durata per più di un anno e in questi 12 mesi il Pil è crollato. Come non bastasse, parliamo di un paese uscito da pochi anni dalla guerra civile.
Venendo invece a Ebola malattia, mi sento di dire che questa è la peggiore malattia che io abbia mai visto. Io opero in terapia intensiva e di patologie ne ho viste, ma non ce n’è una così disastrosa, con decorsi così gravi e senza margine di intervento. Noi abbiamo lavorato il più seriamente possibile e comunque abbiamo avuto la mortalità al 50%, che vuol dire uno sì e uno no di quelli arrivati vivi al centro. Le cifre sulla mortalità non sono precise, perché molti sono morti prima di arrivare e quindi senza diagnosi.
Nelle precedenti epidemie la gente moriva in tre-quattro giorni dal ricovero. Noi siamo riusciti a tirarli un po’ più avanti, qualcuno probabilmente è sopravvissuto grazie alle cure, grazie al tempo guadagnato; gli altri morivano dopo circa una settimana, peggiorando giorno dopo giorno, una cosa veramente impressionante.
Molti sono stati i gruppi che hanno prestato assistenza umanitaria. I serrialeonesi sono praticamente caduti al primo giro. Già nella fase iniziale, in cui ancora non si prendevano precauzioni, la Sierra Leone ha perso qualcosa come il 50% del suo personale sanitario, che già era poco numeroso. Moltissimi ospedali hanno semplicemente chiuso. La sanità in Sierra Leone era già in crisi perché non c’è quasi nulla di gratuito, salvo i programmi globali, tra cui l’Aids e la tubercolosi, ma tutto il resto è a pagamento. E loro non possono pagare. Infatti, i sopravvissuti di Ebola, per disposizione governativa, venivano foraggiati con viveri per un mese: gli davano un materasso, un pacchetto sopravvivenza, una mezza macchinata di roba, perché la povertà è concausa della malattia.
Erano presenti organizzazioni inglesi, cinesi, sudafricane. Emergency era presente vicino a Freetown, la capitale, con un ospedale che fa chirurgia e pediatria, aperto ai tempi dalla guerra civile. Quando è iniziata l’epidemia, si è trovata davanti a un bivio: la prima preoccupazione era proteggere il centro, perché una volta che fai entrare un malato di Ebola hai finito, puoi chiudere l’ospedale. Infatti l’organizzazione ha reagito molto presto, cominciando a formare il personale. Hanno sviluppato un’originale tecnica di interrogatorio dei pazienti che entravano. Considera che i sintomi sono comuni: tutti i bambini hanno diarrea, febbre, mal di pancia, è difficile distinguere. C’era un’infermiera bravissima, Sara, che aveva ideato la tecnica del "beat around the bush” (girarci attorno): "Come stanno gli altri? Perché non è venuta la mamma?”. Il tutto per scovare se c’era qualche familiare grave o morto. In questi casi i pazienti venivano sottoposti al test; un test rapido che però, comunque, necessitava di una giornata per l’esito; in quell’intervallo di tempo le persone erano quarantinate e osservate ...[continua]

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