È dal 2003 che segui la situazione della Libia. Puoi raccontare?
Ho messo piede in Libia per la prima volta nel 2003 quando c’era ancora l’embargo. All’epoca gestivo un programma di governance locale per le Nazioni Unite. Ricordo questa sorta d’incontro ravvicinato del terzo tipo con i governatori delle sha’abiyat, le regioni. Si trattava di negoziare con loro una piattaforma di sostegno allo sviluppo locale, a seconda della specificità dei vari territori. È stata un’esperienza per certi versi cinematografica, ma anche irritante, tant’è che mi ero detta: in questo paese non ci voglio più tornare. Se mi capitava di andare in ufficio a piedi, dieci minuti di passeggiata, ero oggetto di apprezzamenti verbali pesanti e inusuali per il mondo arabo. Come donna ho avuto molte più difficoltà. La conoscenza della cultura, l’entrare in punta di piedi rimanendo però salda nei miei ideali e obiettivi si è rivelato fondamentale.
Mi aveva colpito negativamente anche il fatto di vedere un paese che dicevano essere così ricco e che tuttavia sembrava essere il più povero in cui avessi messo piede. Un paese dove non funzionava niente e dove gli interlocutori sembravano essere impermeabili all’interazione. Col tempo ho capito che bisognava cambiare registro, bisognava essere capaci di trasformarsi in cantastorie: solo così la comunicazione decollava e si riusciva a entrare in contatto con il loro mondo apparentemente completamente formattato su Gheddafi. Era incredibile, nessuno aveva uno sbrilluccichio, un’opinione propria. Anche se a onor del vero devo dire che i libici sono stati gli unici, tra i popoli arabi con cui mi sono relazionata, che mi hanno detto: "Aiutaci, questo non lo sappiamo fare”. Per esempio si discuteva dei curriculum scolastici e loro mi dicevano: "Noi siamo abituati a un apprendimento mnemonico, non sappiamo come fare...”. Questo mi ha favorevolmente sorpreso.
Sono tornata in Libia nel 2008, anche per ragioni personali. Mi ero però anche stancata di un certo modo di lavorare delle Nazioni Unite, con questa prassi di cominciare processi importanti per poi interromperli per mancanza di fondi, in un contesto in cui peraltro nessuno è mai responsabile (e quindi nemmeno sanzionabile) per gli errori commessi.
All’epoca, l’Eni Nord Africa aveva un grosso programma di investimento sociale. Non avendo esperti propri per la cooperazione, Eni faceva appello a professionisti delle Nazioni Unite o della cooperazione italiana. I fondi venivano gestiti con la National Oil Corporation, la compagnia di petrolio nazionale, e la fondazione Gheddafi. Ed è così che ho iniziato a fare cooperazione dalla prospettiva delle multinazionali, in particolare quelle petrolifere, che nel mio immaginario erano una sorta di diavolo in terra.
L’esperienza si è rivelata invece molto produttiva. Abbiamo restaurato il museo di Sabrata, i mosaici e in parte il sito di Leptis Magna, abbiamo ricostruito cinque scuole elementari e secondarie, allestito una clinica a Jalo, città di 70.000 abitanti nel deserto orientale senza alcuna assistenza sanitaria. Abbiamo pubblicato libri, fatto studi su come valorizzare il patrimonio artistico nel deserto del Murzuq. Abbiamo fatto un lavoro importante sulla gestione dei rifiuti urbani e medici, rafforzato la struttura dell’università per creare capacità interne di analisi dell’aria e dell’acqua; favorito la cooperazione decentrata.
Eri in Libia quando è scoppiata la Primavera araba.
La Tunisia è stata deflagrante per il mondo arabo perché nessuno si aspettava che i tunisini si potessero mai ribellare. La loro rivolta ha generato un’incredibile onda d’urto. In Libia si era già manifestata una certa tensione. C’era un’insofferenza dei cittadini rispetto, ad esempio, ai ritardi nella distribuzione degli alloggi popolari. Ricordo che in una di queste manifestazioni, Gheddafi se ne uscì con uno dei suoi discorsi da collezione dicendo: "Ma perché vi state lamentando? Tutto nel paese è di vostra proprietà. Uscite e occupate”. Che cosa non è successo! Interi nuclei familiari occupavano non solo le case popolari, ma pure le terre, delimitand ...[continua]
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