Da quanto tempo esiste Iac, di cosa si occupa?
Nadia. Abbiamo cominciato a fare teatro insieme, da piccoli, quando avevamo diciott’anni; dopo varie esperienze, nel 2010 abbiamo fondato la cooperativa.
Andrea. Subito, cercando un posto dove lavorare, abbiamo trovato questo, che era un vecchio frantoio. Ce ne siamo innamorati, così l’abbiamo preso in affitto e ristrutturato. Abbiamo una produzione di spettacoli, che portiamo anche in tournée, ma quella parte coinvolge soltanto noi due -almeno per adesso; poi, a fianco dell’attività più tradizionale di compagnia teniamo diversi laboratori teatrali, ma le due attività non sono separate. Tutto il lavoro dei laboratori ci ritorna e confluisce anche negli spettacoli che mettiamo in scena.
Nadia. Se decidi di stare in una città come questa, o comunque al sud Italia, inevitabilmente devi scegliere di avere un approccio, un ritmo, diversi da quelli di chi vuole fare l’attore o il regista a tempo pieno; se vuoi fare quello vai a Milano, a Roma, o nei centri teatrali conosciuti. Qui invece devi lavorare insieme alla città, non puoi stare per conto tuo.
Andrea. Cerchiamo di creare un metodo che possa essere messo a disposizione di vari tipi di persone. Lavoriamo con ragazzi seguiti dal Tribunale dei minori, ma anche con gruppi di disabili, fisici o psichici, e poi c’è chi non ha vere e proprie disabilità e però sente l’esigenza di sperimentarsi.
Nadia. Per quest’apertura all’esterno ci aiuta molto l’ubicazione della sede, che è in via Casalnuovo, una strada popolare al limite tra la città e i sassi. Gli anziani se ne stanno andando ma ora si insediano diverse tipologie di persone, anche perché nel resto della città i prezzi stanno diventando quasi inaccessibili. Quindi questo è uno spazio atipico, aperto, in cui ospitiamo anche corsi di altri gruppi; magari dopo un nostro laboratorio coi minori in affidamento viene il gruppo della ginnastica posturale, con persone più grandi; poi la sera un altro laboratorio teatrale nostro, e l’indomani ospitiamo uno spettacolo aperto al pubblico. Insomma, non un teatro tradizionale! D’altra parte, da quando è nata la cooperativa abbiamo lavorato prevalentemente negli spazi urbani. Per questo i sassi sono un’enorme ricchezza, sono eccezionali, per imbastire uno spettacolo all’aperto; forse anche per questo non siamo così strettamente legati al teatro sul palcoscenico.
Non siamo artisti di strada, però ci piace lavorare più che altro negli spazi non convenzionali.
Che tipo di corsi proponete?
Andrea. Lavoriamo con chiunque sia interessato, anche di varie età; ci sono gli anziani, i bambini delle scuole elementari, i giovani adulti... Il nostro è un metodo che adattiamo ai vari target e comunque verte sempre sul lavoro su di sé.
Non facciamo imparare un testo a memoria per poi andare in scena: quello non ci interessa, immagino che non lo sappiamo neanche fare. Ci piace pensare a questo luogo come a una palestra, dove si impara a educare le emozioni, a leggerle, a riconoscerle e a utilizzarle per quelle che sono. Cerchiamo di farlo senza creare un clima di competizione, o di giudizio. L’idea è cercare di creare delle comunità in cui ciascuno possa trovare uno spazio per stare insieme e condividere con gli altri delle esperienze.
Nadia. Abbiamo la fortuna di avere la sede in un quartiere in cui ancora si vive una socialità diretta. Però sì, si vede venire avanti anche una solitudine che richiederebbe l’abitudine a una nuova relazione con l’esterno.
Tutto l’approccio dei laboratori è ritagliato sulla persona. Per esempio, in questi giorni abbiamo un gruppo molto interessante, venti persone. Ci sono due ragazzi down e un ragazzo con un ritardo, e altri "non disabili”; tutte le volte che facciamo delle improvvisazioni, i "non” hanno grandissime difficoltà a credere in qualcosa che non c’è! In loro il pensiero razionale, la realtà, è molto più forte dell’immaginazione.
Andrea. Ricordo con grande piacere un’esperienza che abbiamo fatto qualche anno fa con degli utenti di un centro psichiatrico. Tra questi c’era una persona conosciuta in città come "Gino mille lire”, perché andava sempre in giro a chiedere soldi. La gente era abituata a pensare che fosse soltanto "quella cosa lì”. Conoscendolo meglio, anch’io ne ho capito gli aspetti più geniali: si ricorda a memoria "La Livella” di ...[continua]
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