Lucia Micheli, è direttrice del coordinamento della cooperativa Utopia. Debora Ambrosini è direttrice clinica della comunità Acquaviva gestita dalla cooperativa Utopia.

Come nasce la vostra comunità?
Debora. La comunità Acquaviva nasce nel 2006 con l’intento di rispondere a dei bisogni emergenti che erano quelli del disagio psichico in età evolutiva. Abbiamo così creato una comunità terapeutica per minori, sia maschi che femmine, in cui ci occupiamo di tutto lo spettro del disagio psichico, salvo le problematiche che necessitano di interventi specifici, come le doppie diagnosi, le situazioni in cui c’è una dipendenza o un uso "importante” di sostanze, l’autismo "puro” e i disturbi del comportamento alimentare (Dca). Il gruppo degli ospiti è molto variegato a livello psicopatologico, quindi anche il nostro lavoro deve declinarsi sulle varie esigenze. Tre anni fa c’è stata un’ulteriore specializzazione del nostro lavoro, sempre legata alle esigenze che arrivavano dai servizi territoriali, dai familiari, dai genitori. La richiesta sempre più pressante era quella di accogliere anche minori di 10, 11, 12 anni, mentre noi fino ad allora ci eravamo occupati solo di adolescenza. Così abbiamo iniziato a formare una équipe e a pensare a un modulo adatto per i più piccolini, che abbiamo chiamato casa Lupo Rosso. Questa è nata tre anni fa e ospita minori, sempre sia maschi che femmine, dai 9 ai 14 anni.
Sono strutture residenziali?
Debora. Sono strutture residenziali operative 365 giorni all’anno.
Lucia. Sono strutture sanitarie, non siamo una comunità socio-educativa ma terapeutica, quindi sanitaria. Da noi l’invio deve avvenire obbligatoriamente attraverso un servizio sanitario di neuropsichiatria infantile. Noi rispondiamo a una esigenza innanzitutto sanitaria, non solo sociale. Che poi le due dimensioni siano totalmente in interrelazione tra di loro e che abbiano dei risvolti comuni è sicuro, però, per noi, è fondamentale che ci sia una presa in carico di una neuropsichiatria territoriale in relazione e collaborazione con la parte sociale.
Debora. La competenza a livello regionale, banalmente la retta, è a carico dell’Asl di residenza, per la regione Marche. In realtà poi gli ospiti ci arrivano da tutta Italia, noi privilegiamo le Marche e le regioni limitrofe per una facilità del lavoro di rete, chiediamo infatti una vicinanza e una compartecipazione forte sia dei servizi invianti che della famiglia.
Però sono capitati casi anche di Mestre, Roma, Napoli, il che rende più complicata la nostra attività ma comunque fattibile se gli interlocutori sono motivati.
Quindi questi ragazzini arrivano con una diagnosi?
Debora. Si parla sempre di esordi, di quadri, di spettro. Arrivano con delle diagnosi che per le età sono inevitabilmente un po’ fumose. Arrivano da noi dopo che sono stati tentati altri tipi di interventi. Non è che il minore che "sta male”, deve andare subito in comunità. Si provano prima interventi territoriali, di sostegno alla famiglia, con educatori domiciliari, con sostegno scolastico... Quando tutti questi interventi a livello territoriale si rivelano insufficienti, può diventare necessario un percorso terapeutico diverso, con un periodo di distacco dalla situazione territoriale e familiare.
Lucia. L’invio è sanitario proprio perché c’è una "diagnosi” e una problematica non più gestibile all’interno di una famiglia
Occorre cercare di capire come affrontare una sofferenza così profonda che li ha portati a commettere atti anche estremi, come tentati suicidi o comunque a un’aggressività molto violenta e a depressioni molto forti. Per noi è importante dire che siamo una realtà riabilitativa e non diagnostica.
Debora. Da poco abbiamo aperto una terza comunità, Casa Lucia, che si occupa di minori trovati in stato di abbandono, sempre adolescenti.
Come sono organizzate?
Debora. Siamo una struttura sanitaria però non siamo un ospedale, nessuno porta il camice; cerchiamo di creare, per quanto possibile la dimensione di una casa, anzi ci definiamo proprio così: una casa per un po”. Sono due moduli per dieci ospiti ciascuno. Queste tipologie di comunità danno l’accreditamento fino a venti posti, noi però abbiamo deciso che era meglio limitare a dieci più dieci con due équipe diverse, due gruppi di lavoro e di ospiti separati, due percorsi diversi. L’ossatura centrale è l’equipe, che è eterogenea, come lo è il gruppo degli ospiti; noi diciamo sempre che siamo uno lo spec ...[continua]

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