Femminismo è parola sovente letta con uno sguardo al passato, quando non pronunciata con tono di sufficienza o di ostilità, e questo mi pare non solo dagli uomini. Alla luce dei tuoi studi e del tuo impegno culturale, come leggi l’attuale fase, che ne è oggi del "femminismo”?
In effetti, la tua domanda coglie nel segno dal momento che mette a fuoco la contraddizione di fondo che attraversa oggi il femminismo. Da un lato, infatti, si riconosce all’esperienza femminista un merito storico: quello di aver scardinato l’assetto patriarcale delle società occidentali post-belliche. Dall’altro lato, si imputa al movimento una grave sconfitta, cioè la perdita della forza rivoluzionaria mobilitata nel corso degli anni Settanta, a fronte della svolta neoliberale nel cui immaginario le istanze femministe più radicali sarebbero state inglobate. Per questo capita spesso che nel dibattito attuale la prospettiva femminista sia evocata sostanzialmente alla stregua di una realtà anacronistica, superata, da declinare al passato. Proprio a fronte di questa duplice mossa dell’opinione pubblica -in cui si mescolano a un tempo riconoscimento e negazione- si afferma, a mio avviso, l’attualità ‘scomoda’ del femminismo. Se si pensa all’effetto perturbante prodotto di recente dalla presa di parola femminile sulla scena pubblica (mi riferisco alla Women’s March seguita all’elezione di Trump, alle denunce femminili relative agli scandali sessuali del caso Weinstein -e, prima ancora di questo, al caso Berlusconi) si comprende quanto produttiva sia la forza sovversiva del femminismo.
Dato per scomparso, sconfitto o neutralizzato nell’epoca della governamentalità neoliberale, il femminismo ritorna ogni volta a manifestarsi in chiave di parola imprevista, come espressione di un’esigenza e di un desiderio di libertà che non si lasciano catturare del tutto dall’ordine vigente.
Nei tuoi scritti citi spesso Carla Lonzi. In tempi recenti, mi pare la si stia riscoprendo, in qualche modo rilanciandone l’originalità dello sguardo sulla società e i rapporti tra i sessi.
È così. Ho avuto modo di verificarlo durante i miei corsi all’università dove ho avvertito la presa che il femminismo di Carla Lonzi esercita sui giovani, a partire dal loro profondo interesse per la prospettiva teorico-esistenziale del suo pensiero. Ciò accade, a mio avviso, proprio per l’originalità dello sguardo espresso della sua scrittura, riconducibile al carattere originario, sorgivo, del femminismo come taglio simbolico all’ordine patriarcale. Taglio simbolico che apre alla politica come esperienza di libertà. E ciò appassiona molto chi ha l’esperienza di leggere i suoi scritti per la prima volta. Quando, nel Manifesto di Rivolta femminile del 1971, Carla Lonzi definisce la differenza sessuale come "un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano”, esprime la radicalità di un posizionamento tutt’altro che identitario, vale a dire, il nucleo di senso della radicalità femminista oggi spettralizzato dal neoliberalismo: l’eccedenza della libertà femminile, sperimentata attraverso le pratiche di relazione tra donne e il rifiuto della legge paterna.
Richiamando il suo Diario di una femminista, tu hai scritto che per Lonzi "l’affermazione della libertà femminile non riguarda la conquista della parità, dei diritti, dell’emancipazione, ma riguarda piuttosto l’appropriazione simbolica del desiderio da parte delle donne, la sua sottrazione al principio di piacere maschile”. Ci spieghi cosa significa questo nel contesto della società odierna?
Per Lonzi, la posta in gioco del femminismo non è il riconoscimento di uno statuto connesso alla valorizzazione di una specificità di genere, ma l’affermazione di una "misura di giudizio autonoma” da parte delle donne derivante dalla messa in questione dell’universale maschile, come si legge anche nel recen ...[continua]
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