L’idea era quella di raccontare due storie, nella speranza che la conoscenza di come l’altro aveva vissuto lo stesso periodo storico, facilitasse l’incontro; questo in un periodo in cui anche la politica vi puntava; poi le cose sono solo peggiorate; oggi i giovani israeliani rischiano di arrivare alla maggiore età senza aver mai incontrato un palestinese e viceversa; e chi si ostina a cercare, a favorire, l’incontro viene isolato. Intervista a Sami Adwan e Yaarah Bar-On.
Sami Adwan, palestinese, già docente di Pedagogia all’Università di Betlemme e co-direttore del Prime (Peace Research Institute in the Middle East), da anni è impegnato in progetti di "Sharing History”. È autore, assieme a Dan Bar-On, di un manuale per studenti con la versione israeliana e la versione palestinese di alcuni degli eventi più significativi della storia dei due popoli. Per questa loro impresa hanno ricevuto, nel 2001, il Premio Alexander Langer.
Yaarah Bar-On, figlia di Dan Bar-On, storica e pedagoga, è direttrice del College Oranim di Haifa, che si occupa di formazione degli insegnanti.
All’inizio del 2000 avete pubblicato un manuale scolastico, scritto da insegnanti palestinesi e israeliani, per far sì che gli studenti potessero conoscere anche "la storia dell’altro”. Possiamo fare un bilancio di questa esperienza?
Sami. Tutto è cominciato circa 17 anni fa. Dan e io eravamo molto sorpresi e felici per il riconoscimento dato al nostro lavoro all’estero. Il premio Langer ci ha motivato molto, ci ha dato molta energia. Tanto più che nel nostro paese, invece, questo esperimento non solo non veniva sostenuto, ma veniva addirittura osteggiato. Ci trovavamo quindi in una strana situazione. Col tempo abbiamo capito la reale portata di questa impresa.
Dopo un conflitto o una guerra si tende a raccontare la storia da un solo punto di vista, invece è importante far sì che, specie i più piccoli, possano studiare le diverse narrazioni storiche e trarre poi un giudizio autonomo. Non abbiamo il diritto di dire agli studenti qual è la storia giusta. Abbiamo pensato che questo approccio fosse cruciale in particolare per il conflitto israelo-palestinese, ma poi ci siamo resi conto che questa è una modalità che può essere applicata anche altrove.
La storia è caratterizzata da un processo di continue scoperte. Elaborare, per motivi politici, religiosi o di nazionalità, una narrazione univoca è molto rassicurante, ma può diventare una trappola, possiamo essere vittime della nostra stessa narrazione.
Noi, in questo lavoro, abbiamo adottato un approccio bottom-up, dal basso, coinvolgendo gli insegnanti. Abbiamo anche smesso di definire questi progetti "peacebuilding”, visto che la pace ancora non c’è. Oggi parliamo più prosaicamente di "progetti di riforma dell’istruzione”. Ci interroghiamo sulla relazione tra gli insegnanti e i libri di testo, sul ruolo degli insegnanti e degli studenti nel processo di apprendimento.
Yaarah. In quanto storica ed educatrice, questi sono tutti temi che mi stanno a cuore. Ne ho parlato molte volte con mio padre. Per me la storia era un racconto lineare, in cui una vicenda porta alla successiva, e per capire il presente basta andare indietro nel tempo e collegare tutti gli avvenimenti. Questo progetto però non riguarda la conoscenza della storia, ma il suo ruolo. Da un certo punto di vista possiamo dire che non esiste una "nostra” storia, un’unica storia nazionale. Una persona non può essere definita esclusivamente dalla storia della propria nazione. Io non sono nazionalista, faccio parte del popolo ebraico e questo è il mio destino, il mio passato, ma tutto questo non basta a definirmi. Sono un essere umano e questo è un concetto molto più ampio dell’appartenenza a un gruppo. Quando mi sveglio la mattina sono una madre che deve occuparsi dei suoi figli, poi una donna con una carriera in un ambiente dominato dal patriarcato, nel pomeriggio sono un’ebrea che va alla sinagoga…
Beh io, a dire la verità, non ci vado, ma il punto è che non voglio rinunciare ad alcuna di queste storie: potrei raccontare la mia storia di madre, di figlia di mio padre, di bambina nata in un kibbutz o ancora di donna ebrea di origine tedesca, e tutte queste storie stanno assieme. La storia non può ridursi alla definizione monolitica di un’identità collettiva. Soprattutto in un contesto come il nostro.
Noi vogliamo che i nostri figli siano in grado di ascoltare, provare empatia quando ascoltano le storie degli altri.
Sami. Questa è l’ambizione del progetto, l’obiettivo che ci eravamo posti all’inizio Dan e io: volevamo liberare la storia, disarmarla.
Purtroppo la realtà è un’altra. Oggi il Ministero e le autorità nazionali ci impongono il loro programma di storia. Proibiscono perfino che gli insegnanti portino materiale suppletivo. In Israele non puoi portare la narrazione "del nemico”. Allo stesso modo in Palestina è bandito dare spazio agli "occupanti”.
Ormai s
...[
continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!