Specializzata in formazione degli adulti, Paola Stradi ha lavorato sui temi del mercato del lavoro e dell’istruzione presso diversi istituti di ricerca del Veneto. Attualmente si occupa di orientamento presso l’Esu-Ardsu di Padova (Azienda Regionale Diritto allo Studio Universitario).

La parola “orientamento” può richiamare alla mente l’idea di uno sportello a cui rivolgersi per ottenere informazioni pratiche, qualcosa di magari necessario ma un po’ scontato, forse polveroso, dove passare rapidamente per raccogliere moduli, fascicoli illustrativi, dépliant… Da quello che ho intuito è invece ben altro. Perché ha a che fare con uno snodo importante nella vita delle persone, interviene in un momento di scelta, di dubbi, di incertezza. Perché è un luogo in cui si incontrano, o forse scontrano, le attese degli studenti e quelle delle loro famiglie, le prospettive del mercato del lavoro e i desideri di realizzazione dei ragazzi. In una società frammentata, complessa, con spinte contraddittorie, dove spesso le persone sono sole davanti alle alternative, la domanda di orientamento racconta probabilmente molto di quello che ci sta accadendo. Da questo punto di vista, ti senti in un osservatorio privilegiato?
In parte direi di sì. Il mio osservatorio è decisamente particolare, godo di una visione grandangolare, per utilizzare un termine fotografico, e la realtà sociale mi si presenta davanti con tutti i soggetti che ne fanno parte, in modo diretto -attraverso gli studenti e i post studenti- ma anche indiretto, avendo sullo sfondo le famiglie, la scuola, l’università. E ancora gli enti locali, la Regione, il mercato del lavoro, le associazioni di categoria, il sindacato, il mondo della cooperazione e del terzo settore, la formazione professionale a vario titolo. Lo studente che arriva, fondamentalmente, fa una domanda molto esplicita: “Cosa devo fare?”. Dietro questo interrogativo emergono bisogni impliciti che si dipanano a ventaglio sul vissuto interno, sulle aspettative, sulla conoscenza del mondo esterno, sul futuro…
Le criticità sono chiare: visto che i ragazzi non imparano a scegliere durante il loro percorso scolastico, la prima cosa che fanno quando arrivano al momento in cui bisogna farlo è delegare “in toto”. Il consulente diventa “colui/colei che risolve” le questioni varie, che si sviluppano come una cartella decompressa i cui file in sequenza possiamo dire che abbracciano il mondo. Gli orientatori hanno poi il compito (doveroso) di affiancare le fatiche delle famiglie che si trovano senza riferimenti sicuri davanti a un mondo tanto diverso dal proprio. Diverso perché gli adolescenti non sono quelli di solo vent’anni fa; perché i lavori non sono più gli stessi o perché anche quelli tradizionali che ancora esistono si svolgono in modo diverso. C’è poi una paura generalizzata del presente ancor prima che del futuro.
Come sei arrivata a occuparti di orientamento?
Direi che mi ha condotto il lavoro “sociale”, quello fatto come volontaria ancora prima che come professionista. Per diverso tempo, intorno ai 22-23 anni, mi sono occupata presso la Caritas di Caserta di formazione degli adulti, lavorando con le prime comunità di immigrati provenienti dal Senegal e dai paesi balcanici. Accostarmi a loro come persone a cui indicare possibilità di crescita personale, di inclusione sul territorio e di consapevolezza linguistica e culturale si è rivelato un lavoro molto intenso e gratificante.
Questa esperienza mi ha condotto ad aprire uno spazio di possibilità verso quello che era già allora (anche se non era codificato) il tema dell’orientamento alla scelta.
I miei studi avevano delineato una forte componente socio-culturale; attraverso il percorso di Scienze Politiche a indirizzo politico-sociale, avevo individuato alcuni ambiti di approfondimento. Mi interessavano soprattutto le persone con le loro storie, le loro diverse provenienze, le narrazioni articolate nelle scelte di vita frutto del proprio continuo adattamento (oggi si direbbe resilienti). Mi interessavano però anche le interconnessioni culturali, quello cioè che gli individui come corpi immersi in una collettività possono agire e modificare dall’interno (gruppi di cambiamento, convivenza generativa, modelli di partecipazione). Direi onestamente che gli studi hanno influenzato la mia azione di cittadinanza attiva e, viceversa, quest’ultima ha nutrito le mie scelte di approfondimento culturale e in seguito professionale.
Per diverso tempo ...[continua]

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