Partirei dal cenno autobiografico che apre il suo libro: lei marinaio di leva sulla Galeb, la nave scuola di Tito.
Sì. Io sono del ’65 e ho fatto il servizio militare come cittadino jugoslavo prima di andare a studiare a Padova. Questo fatto me lo sono sempre tenuto per me; poi, quando stavo scrivendo questa storia, ho deciso di fare outing. La biografia naturalmente fa la differenza quando si scrive una storia dell’Adriatico: un conto è navigare come amatori, come per la borghesia triestina; un’altra cosa sono i ritmi di una nave militare.
La Marina jugoslava era una marina difensiva, aveva ripreso il sistema già austro-ungarico: essenzialmente mirava a proteggere la costa. La Galeb non è una gran nave: nasce come bananiera italiana, costruita nel 1938. Faceva la spola fra le colonie del Mar Rosso e l’Italia per trasportare le banane. Poi fu trasformata nel ’40 per esigenze belliche -ancora adesso, a bordo della nave, c’è scritto dappertutto “R.M.I.”, Regia Marina Italiana- e furono aggiunti due motori Fiat 5000 cavalli. Fu bombardata a Bengasi e poi ritrascinata in Istria, dove è stata ristrutturata.
È una nave molto elegante, di stile italiano, scelta da Tito come nave scuola. Finiti i corsi, a luglio, caricava gli allievi ufficiali dell’Accademia navale di Spalato e fra loro c’earano i nostri “amici” algerini, libici, iracheni, egiziani. Una nave del non-allineamento jugoslavo, insomma, un modo di tenere unita la Jugoslavia proiettandosi su scala internazionale. Si possono ancora vedere su Youtube le visite di un giovane Gheddafi negli anni Settanta.
Ancora oggi non so come sono riuscito a finire su questa nave di raccomandati: la mia famiglia non era iscritta al partito. Ricordo i miei compagni montenegrini, delle Bocche di Cattaro, che a 27 anni avevano già attraversato il Pacifico diverse volte: durante la notte dirigevano loro la nave per i commilitoni belgradesi e istriani che non avevano mai visto il mare al di là delle prime isole dalmate. Quello che so dell’Adriatico orientale l’ho imparato lì: il nome delle isole, degli scogli.
Ci chiamavano gli “ambasciatori” della Jugoslavia. La Galeb era la portatrice del sogno esotico terzomondista del nostro paese, né Oriente né Occidente. Nell’immaginazione nazionale dovevamo soppiantare l’Impero Britannico! Era un uso immaginario dello spazio adriatico, l’illusione di un paese allucinato (non a caso, assieme all’Italia, era il paese dove si leggeva di più Alan Ford!). Pochi anni fa, a Trieste, ho visto un incrociatore britannico moderno: sarebbe stato in grado, da solo, di bruciare l’intera flotta jugoslava.
Adesso la Galeb è ormeggiata a Fiume, arrugginita per la pioggia. Si sta pensando di ristrutturarla coi soldi della Ue per Fiume città europea della cultura 2020. Può immaginare fra quante polemiche.
Il suo libro si collega alla lezione di Fernand Braudel e alla sua storia del Mediterraneo. Cosa le ha insegnato la cosiddetta talassografia?
Quando sono arrivato a Padova, nel novembre del 1985, era appena morto Fernand Braudel. Il primo corso che ho fatto all’università era dedicato a Venezia durante la Controriforma. Non sapevo niente di Venezia. In Jugoslavia, quando se ne parlava, se ne parlava male; e ancora oggi in Croazia la si descrive come città sfruttatrice o come impero colonialista. Il professore ci consigliò di leggere il classico Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Così ho capito i “tre tempi” di Braudel e mi è venuto naturale legare la “lunga durata” all’Adriatico ai miei giorni come marinaio sulla Galeb. E ho capito che il mio orizzonte ultimo sarebbe stato proprio l’Adriatico.
Cosa sono i “tre tempi”?
Semplificando: il tempo geografico, quello praticamente immobile dell’ambiente; il tempo sociale, quello delle trasformazioni economiche lente; e il tempo individuale, quello veloce degli eventi storici. Ora, quando si studia un mare è necessario intraprendere una ricerca di “lunga durata”. Per un paese è diverso: posso pensare di fare la storia dell’Italia unita partendo dal 1861, o da un qualsiasi altro punto. ...[continua]
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