Salvatore Biasco, economista, già professore ordinario alla Università La Sapienza di Roma, ha ricevuto diversi riconoscimenti in campo accademico e culturale ed è presente nel dibattito pubblico con saggi in vari campi raccolti nel suo sito www.salvatore-biasco.it.

Vorremmo parlare del Recovery Plan e di questa cifra stratosferica su cui tutti stanno almanaccando. Come interpreti ciò che sta succedendo? Tu cosa pensi che sarebbe giusto fare?
Mah, interpretare quel che succede con categorie politiche è un azzardo, anche perché dai tempi di Bertinotti abbiamo imparato che, ad di là di ciò che è scritto nei trattati di politologia, esiste anche l’elemento follia (e avventurismo) nella politica.
Possiamo invece dire qualcosa su ciò che oggi sarebbe desiderabile accadesse riguardo al Recovery Plan (noi continuiamo a chiamarlo così, ma in realtà si chiama Piano per la Nuova Generazione, Next Generation Plan). Sarebbe bene tener presente la sua destinazione. Quel che è certo è che siamo in un momento in cui bisogna prendere una strada o l’altra, dare una direzione al futuro del paese. Innanzi tutto, bisogna chiedersi che società vogliamo costruire. Voglio dire che non si tratta solo di decidere su quale industria puntiamo, o come spendiamo i soldi per l’ambiente o la salute, ma anche quale tipo di società, con quali connotati, con quali protagonisti sociali vogliamo mettere in moto. In particolare per la sinistra questo è il momento di autodefinirsi. Allora, a mio avviso, la prospettiva non può non essere quella di un nuovo compromesso sociale, che preveda un disciplinamento del capitalismo, un modello di sviluppo dinamico e basato sull’ecologia, un’azione normativa tesa a ricomporre la frammentazione e proteggere i lavoratori, infrastrutture sociali a tutto campo, valorizzazione del ruolo dei corpi sociali nelle politiche pubbliche, fortissimo investimento nell’istruzione dei giovani e nella formazione permanente, affidamento esteso sulle comunità e sulle forme associate di partecipazione alla cosa pubblica.
Al centro di tutto, uno Stato ritornato protagonista nella vita economica e nell’organizzazione della società, dopo decenni in cui questo ruolo è stato affidato (perfino disordinatamente) al mercato. L’emergenza Coronavirus ha originato quella che può essere considerata una novità nel panorama delle società occidentali: una rilegittimazione dei poteri pubblici e del loro esercizio esteso. Non più l’intervento di ultima istanza, come era avvenuto nella precedente crisi del 2007- 2008, ma una guida posta al centro di ogni determinazione sociale e produttiva, un deus ex machina. L’uso di quei poteri in questo 2020 è stato continuo, e anche radicale, ma soprattutto abbiamo assistito a un affidamento che i cittadini hanno fatto sullo Stato, in primo luogo i ceti più deboli e più colpiti. Abbiamo sancito all’inizio di questa pandemia che era nei suoi poteri (anche se non è avvenuto) requisire fabbriche per produrre mascherine, mettere la golden rule in imprese private, stabilire il prezzo delle mascherine, imporre il blocco dei licenziamenti. Sono tutti poteri che noi non avremmo nemmeno immaginato che potessero essere usati. Forse lo sono stati in altre epoche, ma non in questa. In luglio, poi, ricordo un articolo di Arcuri in cui diceva, cito a memoria, che all’inizio della pandemia noi (Italia) non eravamo in grado di produrre mascherine, né il tessuto, né il solvente, né gli elastici, per cui tutto doveva essere importato. Poi, continuava, abbiamo commissionato ad alcune imprese la progettazione tecnica di macchine idonee, chiesto ad altre di produrle e le abbiamo allocate con incentivi a 130 produttori, molti dei quali riconvertiti con investimenti. Lo stesso per i solventi. Per i ventilatori, diceva, abbiamo scoperto che c’era una sola impresa che li produceva e li esportava. è stata indotta a quadruplicare gli impianti, costruendole attorno tutta la filiera delle piccole imprese per produrre gli speciali input intermedi. “Alla fine -concludeva- noi abbiamo prodotto milioni di mascherine senza importarne più una e ampliato le terapie intensive senza importare un solo ventilatore”. Forse non sarà tutto così trionfalistico, perché poi scopriamo che qualcosa non è andato con i produttori di mascherine, ma ciononostante questo tipo di organizzazione ci dice che si può governare l’apparato produttivo in modo razionale, entrando dentro il merito delle questioni e dentro il merito degli obiettivi ch ...[continua]

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