Lei si è laureato in Medicina in un momento in cui il dibattito sulla legge 194 era molto acceso. Cosa ricorda di quel periodo?
Mi sono laureato nel 1977, un anno prima dell’approvazione della legge 194. Quando studiavo all’università di Bologna il dibattito sull’aborto clandestino e il diritto all’autodeterminazione era molto intenso e appassionante. Su questi temi si tenevano assemblee con centinaia di persone, e il professor Carlo Flamigni era immancabile. Colgo l’occasione per ricordare la sua figura storica, alla quale sono legato sia professionalmente che umanamente. Un uomo che è stato un grande faro per noi studenti oltre che un baluardo nella difesa dei diritti delle donne. La legge 194 non è un’istigazione ad abortire, ma esattamente il contrario. Rappresenta l’unico argine contro l’aborto clandestino. Dove l’aborto non è legalizzato, si ricorre a quello clandestino. Anche chi considera l’aborto un male deve porsi il problema della riduzione del danno.
Che clima si respirava nel 1977 all’università di Bologna?
Quello fu un anno quasi di insurrezione. Il dibattito era caldissimo, c’era uno scontro tra chi diceva “voi volete la libertà di ammazzare i bambini!” e chi sosteneva che la legge 194 non fosse una legge per favorire l’aborto, ma servisse invece a stroncare quello clandestino. Ricordo una frase che il professor Flamigni ripeteva sempre durante le assemblee, nelle università come nelle fabbriche: “Qui non si tratta di “aborto” o “non aborto”. Ma distinguere tra quello effettuato sul tavolaccio da cucina con strumenti rudimentali unito a un alto rischio per la vita della donna, e quello praticato in sicurezza, senza doversene vergognare”.
Quando iniziò la professione di ginecologo?
Alla fine del 1977, proprio alla vigilia della legge sull’aborto. Come primo incarico fui mandato in un piccolissimo ospedale della montagna marchigiana come assistente ginecologo. Dichiarai subito la mia disponibilità ad applicare la legge 194 e fin dall’inizio mi resi conto che la possibilità di applicarla incontrava diversi tipi di ostacoli. Nonostante questo iniziammo subito grazie soprattutto ai ginecologi giovani che in quella legge ci credevano, spalleggiati da pochi primari ma da una mobilitazione popolare che continuò anche dopo l’applicazione della 194. Ci fu un lungo periodo di sorveglianza popolare.
Che clima ricorda?
Nel 1978 l’iter legislativo fu molto sofferto e vide il mondo politico spaccarsi e ricomporsi. Per esempio nel Partito comunista si scatenò un dibattito interno grazie alle donne e ai giovani democratici. La discussione non verteva solo sul diritto all’aborto, ma sull’autodeterminazione. E riguardava anche la contraccezione, un nuovo rapporto delle persone con la scelta della genitorialità, e la costituzione dei consultori, che in Emilia Romagna furono “gemelli” della legge 194.
Il primo giorno di applicazione della 194 lavoravo a Faenza, dove ricordo una dottoressa poco più anziana di me che si impegnò ad applicarla tra gli sguardi torvi dei colleghi anziani.
Quali furono le prime difficoltà che incontrò come ginecologo favorevole alla 194?
Erano soprattutto di tipo organizzativo, e dipendevano molto dalle posizioni dei direttori di reparto. I primari non erano favorevoli per cui non ci davano una mano.
Ricordo che quando mi trasferii a Rimini io e una collega eravamo gli unici a praticare interruzioni di gravidanza e facemmo presente che per applicare la 194 avevamo bisogno di una formazione specifica. L’“isterosuzione” non era un intervento qualsiasi, ma un intervento nuovo.
Mandarono me e la collega a fare tirocinio all’ospedale di Cesenatico, dove c’era un’equipe che aderiva al 100% alla legge e facemmo lì qualche mese di formazione e pratica. Purtroppo in altre regioni la situazione era paralizzata e per molti anni si parlò di “pendolarismo della 194”: le donne erano costrette a percorrere centinaia di chilometri per trovare un posto dove andare a interrompere la gravidanza.
Dopo il periodo riminese arrivò a Ravenna, dove rimase a lavorare fino alla pensione. Come andò?
Iniziai nel giugno 1980. Nonostante il primario fosse un obiettore di coscienza non mi mise i bastoni tra le ruote. Eravamo un nutrito gruppo di ginecologi medio-giovani e in ospedale la 194 si applicava. Ci assunsero in sei per l’applicazione della legge, e per allestire la rete dei consultori familiari nel ravennate. Il contratto pr ...[continua]
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