Daniele Galvani, classe ’58, di Ravenna, e Germano Venturi, classe ’47, di Sant’Alberto (Ra), sono operatori tecnici subacquei. Il primo ha lavorato per Eni; il secondo per la Rana, per la Saipem e per la Micoperi. Sono entrambi in pensione.

Daniele, come nasce la tua passione per le immersioni?
Daniele. Quando sei ragazzino i tuoi cercano di tenerti fuori dai pericoli. Ma io coi primi soldi che ho guadagnato mi sono comprato le scarpe da calcio e la mascherina per andare sott’acqua. Probabilmente questa passione l’ho sempre avuta. E ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi piaceva. Se avessi dovuto pensare di fare altro, per me sarebbe stato un bel problema.
Come si chiama il tuo lavoro?
Daniele. In inglese si dice “diver”, in italiano “operatore tecnico subacqueo”. La mia vita lavorativa è iniziata in Marina. Ho fatto sei anni di carriera militare. Congedatomi, dopo appena sette giorni sono stato assunto dall’Eni, allora Agip, e ci ho lavorato per 37 anni. All’inizio ho fatto il sommozzatore, così ho girato tutta Italia, con qualche puntata all’estero. Ma molto poche, perché allora i nostri responsabili cercavano di tenerci in casa. Non eravamo tanti: in cinque coprivamo tutta l’area nazionale.
Un lavoro collegato al reparto oil & gas.
Daniele. Esatto. Non a caso il campo delle piattaforme è nato qui a Ravenna. Parlo dei primissimi anni Sessanta. Qui sono nate le prime attività subacquee di manutenzione. I primi lavori che facevano, pensa, erano quelli di disincrostazione delle piattaforme dai mitili, dalle cozze. Ma io questo non l’ho fatto: ho iniziato negli anni Ottanta, facevo lavori di controllo e riparazioni. Poi, con gli anni, ho iniziato a svolgere attività di gestione del personale e a spostarmi molto, in Calabria, Sicilia, per poi arrivare all’estero, in Libia, ad esempio. Ma i lavori là erano molto differenti: avevamo navi di 120 metri con circa 80 persone a bordo. Barche d’appoggio. E le attività erano svolte con una tecnica di saturazione, con del personale dentro la campana.
Che cos’è la campana?
Daniele. La campana è un metodo di immersione completamente diverso rispetto a quello che avviene in basso fondale. In basso fondale, a 20 o 30 metri, fai un’immersione normale, muta e bombole; se devi fare la decompressione la fai in mare, mentre risali in superficie. Quando fai la saturazione la storia è diversa. Vivi dentro delle “camere” ospitate sulle navi, con turni di 28 giorni. Di solito dentro si sta in nove, tre persone per ogni turno. Non esci mai da quelle camere, dove dormi e mangi, perché lì dentro c’è la stessa identica pressione che troverai lavorando nella quota di fondo. Se lavori a 150 metri, in quelle camere troverai atmosfere equivalenti a 150 metri. Anche quando devi mangiare, ci sono oblò particolari per far sì che la camera non si apra mai.
Se, per incidente, dovesse entrare aria, o se ci fosse uno sbalzo di pressione repentino, sarebbe gravissimo. Si morirebbe sul colpo, asfissiati. Perché stai vivendo dentro una camera con pressione diversa rispetto all’esterno.
Perché i turni durano così tanto?
Daniele. Perché spesso i lavori sono prolungati, come le attività di riparazione o manutenzione: controlli alle piattaforme, alle saldature, alla corrosione, alle linee del gas, e così via. Non tutte le ditte di lavori subacquei sono in grado di fornire servizi in saturazione, ci vogliono impianti costosi.
E la campana a cosa serve?
Daniele. Per andare sott’acqua. In queste camere, che rimangono sempre all’asciutto, c’è un oblò per entrare nella campana, che sarà quella che finirà fisicamente sott’acqua. Viene presa dalla superficie, “clampata”, ovvero agganciata a questo oblò; si pareggiano le pressioni e avviene il passaggio del personale, solitamente tre alla volta. Poi si va giù, a quota di lavoro. Di solito i turni sono di otto ore. Mettiamo che stai lavorando a 120 metri. Naturalmente la campana non “poggia” sul fondo; si ferma a 100-105 metri. Da sotto la campana si apre un oblò: ma la pressione, dentro, è la stessa che c’è a quella profondità: apri e puoi tranquillamente uscire da sotto, agganciato a tubi detti ombelicali, che servono per l’aria. È solo in quel momento che si tocca l’acqua. Finite le otto ore di lavoro, si risale dentro la campana, che viene recuperata, portata in superficie e clampata di nuovo. La gente esce e ne entrano altri tre, a ciclo continuo. Per queste attività si lavora sempre sulle 24 ore. Gli ultimi dieci anni di lavo ...[continua]

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