Negli ultimi anni della tua carriera scolastica sei stata lettrice all’Università di San Paolo in Brasile. Ci racconti?
Essere lettrice significa rappresentare la cultura italiana all’estero; è un compito importante quindi è stato molto gratificante per me risultare ai primi posti nel concorso del 2011. È un concorso che si basa non solo sulla selezione linguistica ma anche sui titoli accademici, sulle pubblicazioni culturali, su progetti didattici particolari e su eventuali riconoscimenti.
Quando mi è stato proposto di assumere il ruolo di lettrice presso l’Università di San Paolo, in Brasile, a settembre 2014, mi sono preoccupata perché non avevo nessuna conoscenza della lingua portoghese, considerata una lingua romanza affine a quelle di mia conoscenza, inoltre si trattava di andare in un paese lontanissimo dall’Italia e in particolare in una megalopoli di più di venti milioni di abitanti, mentre il mio paese, Fognano di Brisighella, ne conta più o meno 1.500.
Con l’appoggio perplesso della mia famiglia e nonostante avessi quasi sessant’anni, ho accettato. Mi sono interessata dell’insegnamento dell’italiano all’estero fin dai primi anni Ottanta, periodo in cui sono stata docente presso le scuole statali italiane primarie e secondarie di Tangeri, in Marocco. Ho vissuto lì sette anni e quel periodo è stato molto importante per me, umanamente, culturalmente e professionalmente.
Con il portoghese come andava?
In facoltà parlavo in italiano sia con i professori, che con gli allievi della mia area di studio, nel frattempo però mi ero iscritta a un corso di portoghese che frequentavo assiduamente. La mia docente, molto simpatica, diceva che parlavo un orribile portugnolo, cioè un fastidioso incrocio tra il portoghese e lo spagnolo. Poi pian piano ho iniziato a usare il portoghese nella vita quotidiana senza troppe ansie da prestazione, cioè la mia competenza linguistica è migliorata pur restando mediocre, mentre la mia comprensione è aumentata, grazie anche alla lettura.
Dopo il primo anno accademico sono diventata consapevole, a causa della mia esperienza professionale con bambini, adolescenti, giovani universitari, che in tutto l’iter scolastico vi era un elemento costante che conduceva al successo o all’insuccesso negli studi: chi aveva voglia di imparare, imparava, chi non ne aveva voglia, non imparava. Ho scoperto l’acqua calda!
Mi sembra di capire che ti sei accorta che anche all’università c’era un problema di motivazione allo studio.
Anche all’Usp, la più famosa università del Sud America, un luogo elitario, a numero chiuso, molti studenti non erano motivati allo studio e questo creava un disequilibrio all’interno della comunicazione didattica in aula. Nel frattempo, avevo acquisito conoscenze e competenze teoriche anche in merito alla motivazione allo studio e ho approfondito quelle che avevo utilizzato, in forma non metodica, durante i miei trent’anni e più di insegnamento. Intanto, per conoscere le diverse intelligenze degli alunni di tutti i miei corsi, la loro modalità d’apprendere, le loro aspettative sul corso, quali delle parti del programma proposto avrebbero voluto approfondire, eccetera, consegnavo a tutti il primo giorno delle lezioni, un questionario anonimo. L’ho chiamato di “ricerca motivazionale”, perché lo consideravo una prima spinta alla motivazione dato che contribuiva a far riflettere sia me sia gli studenti sul percorso di apprendimento in cui eravamo coinvolti. Poi, il penultimo giorno di lezione ne proponevo un altro che serviva come discussione collettiva per la fine del corso con lo scopo di evidenziare le qualità e i limiti del corso svolto.
Quindi tu hai iniziato a lavorare sulla motivazione...
Non solo, principalmente sulla comunicazione, uno dei miei grandi interessi. Ma no, non ho iniziato subito.
Come ti dicevo, appena arrivata mi sono occupata più dello studio dei programmi dei professori, della loro metodologia, dello studio della lingua portoghese, della ricerca di una casa, di una prima mappatura di punti di riferimento nella città che era davvero gigantesca, di una cultura che somigliava alla mia, ma solo in apparenza e di cui non conoscevo la storia. Così durante i miei primi corsi lavoravo in parallelo con i programmi dei colleghi e utilizzavo lo stesso metodo d’insegnamento. Ricordo che all’inizio stu ...[continua]
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