Vorrei parlare con te dell’uso mirato della cultura con finalità rieducative partendo da un articolo che è stato pubblicato sul “Corriere della Sera” (25 dicembre 2021) con questo titolo: “Carlo Bussetti redento dal teatro. Io ex balordo porto in scena gli altri detenuti”. Ecco, il potere redentivo del teatro in carcere: che cosa ne pensi?
A parte il fatto che “redenzione” mi sembra una parola molto grande, penso che molto lo fa la storia della persona. Il teatro in sé non è un pacchetto che, se scegli di acquistarlo, ti dà la soluzione e ti svolta la vita… Dipende dalla persona, dall’uso che ne fa, come per tutto. Nella mia esperienza ho visto persone detenute che effettivamente con il teatro hanno fatto un bel percorso. Poi non so cosa succede, perché con alcune di loro rimango in rapporto, in contatto anche fuori, però con la grande maggioranza, una volta che escono dal carcere, non ho più relazioni. Quindi ti posso dire che nell’esperienza che hanno fatto con me, nel corso del tempo, ho visto uno sviluppo, una crescita, così almeno mi è sembrata, non solo come attori, ma come persone, però una volta usciti non so dirti cosa hanno fatto nella loro vita.
Quello che dici mi riporta ad alcune considerazioni che faceva Edoardo Albinati in un incontro a Rebibbia nell’ottobre 2019. Impossibile dire quali effetti avrà leggere Dante o studiare la grammatica e la storia... Quello che mi ha colpito dell’articolo che ho citato, e che mi colpisce spesso degli articoli pubblicati sui quotidiani a proposito del carcere, è come il mondo penitenziario viene comunicato a chi non lo conosce, come si racconta cosa accade dentro a chi sta fuori. L’idea di una redenzione legata alla detenzione, o del suo fallimento, è molto diffusa. Ora, nella tua percezione, quell’uno per cento di cittadini che si interessano di queste questioni, ritiene che il teatro in carcere abbia un potere curativo, terapeutico? Oppure ha un’immaginazione un po’ più complessa e sfumata rispetto al rapporto fra teatro e carcere?
Diciamo che al di là dell’uno per cento c’è il novantanove per cento che ha un’idea ben precisa sul carcere, secondo me, e pensa che il carcere non funzioni… Che poi è vero. Anch’io penso che il carcere in Italia sia un luogo che allo stato attuale non ha la capacità di svolgere la funzione rieducativa per cui nasce sulla carta, sembrerebbe fondarsi su un senso di vendetta: oltre a essere il luogo in cui le persone vanno punite, diventa anche quello dove se hai fatto del male, lì dovrai stare male, al di là della pena che dovrai scontare.
Penso sia così, penso che la stragrande maggioranza delle persone abbia questa idea del carcere, e mi capita di avvertirlo per esempio anche nelle scuole. Io lavoro in una scuola superiore, e cerco a volte, quando posso, di affrontare, di buttare lì l’argomento del carcere.
La sensazione che ho a volte parlando con alcuni di questi ragazzi che hanno fra i quindici e i diciannove anni è che pensino: gira la chiave e buttala, hanno fatto del male e devono soffrire.
Nell’amministrazione penitenziaria, nella legislazione che organizza le attività nelle carceri in Italia si pensa che queste attività siano uno strumento di -vogliamo usare questa parola?- redenzione. In realtà il carcere, almeno quello di Sollicciano, è un luogo dove si vive talmente male, ci sono problemi talmente grossi, che non è possibile pensare di fare un percorso di “redenzione”. Devi sopravvivere. In molti istituti in Italia fondamentalmente si sopravvive. Manca tutto, quasi niente funziona, e questo non lo dicono solo i detenuti, lo dicono gli stessi agenti penitenziari, gli edu ...[continua]
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