Giulio Giorello è titolare della cattedra di Filosofia della Scienza all’Università Statale di Milano.

Il vertice di Kyoto ha messo in luce come il progresso, soprattutto col crescente riscaldamento dell’atmosfera, metta in pericolo il mondo stesso...
Non c’era bisogno del vertice di Kyoto per rendersi conto che il progresso è stato, oltreché un’idea affascinante, soprattutto un mito, un grande mito. Senza andare a vedere se già nel mondo antico ci fosse o no un’idea di progresso, che per alcuni c’è stata e per altri no, sta di fatto che l’idea di progresso come la pensiamo noi è quell’idea per cui filosofia e macchina cominciano ad essere coniugate insieme. Si comincia così a vedere nella tecnologia, nella macchina, la forza trascinante, la forza che cambia il mondo. Non a caso Francesco Bacone, nel ‘600, diceva che la bussola, la polvere da sparo e la stampa erano tre invenzioni meravigliose che avevano cambiato il mondo molto di più, e in meglio, di quanto avesse fatto tutta l’opera di Aristotele. Dicendo questo Bacone certamente usava un’immagine, che avrebbe scosso gli animi di coloro che poi sarebbero stati coinvolti in grandi rivoluzioni intellettuali e politiche. Tuttavia, come ha detto molto bene Paolo Rossi, nella stessa concezione baconiana il progresso nasce ambiguo perché la bussola va certo bene, la stampa va benissimo, ma la polvere da sparo, che i cinesi già da secoli usavano per divertirsi, in Occidente è stata utilizzata, fin dalla sua scoperta, per sterminare i propri avversari. In sostanza, quindi, il progresso ha in sé, fin dalla sua nascita, una grande ambiguità perché l’aspetto migliorativo è accompagnato anche da una fortissima componente distruttiva.
E’ un’ambiguità che accompagna tutto il grande mito del progresso dello spirito umano, un mito che ha coinvolto filosofi dell’illuminismo come Condorcet, grandi filosofi dell’idealismo come Hegel, fino ad arrivare a Auguste Comte, il fondatore del positivismo. Questi pensatori dicono cose bellissime sul progresso, ma praticamente non fanno i conti con la violenza che il progresso porta con sé. Non riescono a capire che questa violenza non è un accidente del progresso, ma è intrinseca al progresso stesso. Sarà Nietzsche il pensatore che metterà in luce questo legame nel modo più deciso, basta leggere certi passi di Umano troppo umano o delle Considerazioni inattuali, in particolare di queste ultime, per rendersene conto. Nietzsche mostra il nesso profondo, inscindibile, fra violenza e progresso, un nesso in forza del quale il progresso gronda di sangue. Va anche detto che l’elemento distruttivo intrinseco al progresso non era sconosciuto nemmeno a certi progressisti coerenti, come Karl Marx. Questo legame Marx lo aveva capito benissimo e non a caso teorizzava un tipo particolare di progresso: la dittatura del proletariato, che è l’esempio forse più emblematico di un progressismo nello stesso tempo violento e autoritaristico, visto come unico modo di governare l’ambiguità del progresso stesso.
Come dicevo prima, perciò, non era necessario aspettare Kyoto per rendersi conto che la dimensione della violenza è intrinseca alla dimensione del progresso, basta aver fatto delle buone letture: Hegel e Marx o Stirner e Nietzsche, che per altri versi io preferisco.
Questo, naturalmente, non vuol dire negare banalmente il progresso. Non bisogna scambiare una critica concettuale, o meglio una critica quasi genealogica dell’idea di progresso come quella che si potrebbe fare muovendo da alcune indicazioni di Stirner o di Nietzsche, con un banale misoneismo, ossia con una nostalgia per i tempi che furono, se non addirittura con l’idealizzazione di mitici paradisi in terra. I paradisi in terra non ci sono mai stati e se il Medioevo non fu l’età oscura che certi storici “illuministici” hanno spesso rappresentato, non fu nemmeno quell’età della pienezza umana idealizzata da molti pensatori cattolici tra ‘800 e ‘900. I paradisi perduti non mi hanno mai convinto, sia che li si metta in un Eden geografico o temporale, sia che li si ponga come il paradiso da guadagnare in un lontano futuro. L’unico paradiso perduto che mi piace è quello di Milton, un grandissimo poeta, forse uno dei più grandi che l’umanità abbia avuto.
Detto questo, aggiungo che quello che oggi si tratta di capire bene è quale sia la nostra condizione di abitatori di un mondo in cui la tecnica segna così fortemente i nostri modi di vivere abituali. Bisogna tenere conto che ...[continua]

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