Salvatore Natoli è professore di Filosofia Teoretica all’Università di Milano. Ha pubblicato: L’esperienza del dolore. Forme del patire nella cultura occidentale e La felicità. Saggio di teoria degli affetti, entrambi da Feltrinelli.

A seguito dello sviluppo delle terapie che combattono il dolore come fosse una malattia, come sta cambiando, nella nostra cultura, il rapporto con il dolore?
La medicina palliativa in generale e la terapia del dolore sono oggi una prassi diffusa, direi sempre più crescente, di una mutazione nella esperienza della sofferenza sullo sfondo della grande mutazione moderna costituita dalla tecnica. La terapia del dolore nasce soltanto all’interno di un’evoluzione del quadro tecnico, e sarebbe stato impensabile concepirla senza il grande sviluppo tecnologico. Fino a vent’anni fa ancora la terapia del dolore non esisteva; nella medicina il dolore era inteso come un sintomo, non come un male. Anzi, al dolore si attribuiva il vantaggio di mettere sull’avviso, di essere cioè il sintomo e il segnale che qualcosa non funzionava. Per cui la pratica medica in generale non si poneva il problema immediato di ridurre il dolore, ma solo quello di toglierne la causa: sanata la malattia, qualora fosse sanabile, finiva il dolore. Di converso, purtroppo, quando la malattia non era sanabile il dolore dilagava. Diciamo che lo sviluppo tecnico, sia farmacologico che chirurgico che clinico, ha mutato questo paesaggio: oggi si può aggredire il dolore, limitarlo, senza che ne vengano rimosse le cause. Il dolore può essere trattato in termini medici, indipendentemente dalla sua causa, non è più un segnale, non è più un sintomo, ma diventa esso stesso una malattia, una patologia. Pur in una situazione in cui la malattia continua a svilupparsi, il progetto della terapia del dolore diventa quello di agire sul dolore limitandone la forza e l’intensità. In breve, grazie a queste terapie si può morire soffrendo sempre meno.
Non è una modificazione da poco. Basti pensare a quello che diceva Epicuro: il dolore se è forte è breve, se è lungo è sopportabile, e quindi non è un male. Per Epicuro, cioè, i dolori veri fanno soffrire poco. Infatti nell’età classica l’eccesso di dolore o portava alla perdita dei sensi, allo svenimento, o comunque era talmente atroce e veloce che durava un periodo molto breve se calcolato rispetto ai tempi di vita. Oggi invece, nel momento in cui la medicina può controllare sia la forza del dolore che il tempo di progressione della malattia, si è creata una possibilità inedita, imprevedibile nella storia del mondo: poter convivere a lungo con la propria sofferenza, poter continuare a vivere sotto l’ipoteca del male, poter assistere lucidamente allo spettacolo della propria dissoluzione.
Come si svolge la vita di un uomo al quale la chirurgia ha ridotto il dolore, ha anche temporaneamente sospeso la malattia, ma non è riuscita ad assicurare che non torni? Il paziente sta meglio, ma vive nell’incubo che la malattia si ripresenti.
Cosa può fare, come può vivere un uomo quando, dovendo affrontare periodi più o meno lunghi in cui il dolore è limitato epperò la malattia procede, sente di non avere più un futuro innanzi a sé da organizzare?
In realtà, attutendo il dolore, diminuendo la sofferenza viva, la medicina fa morire meglio l’uomo, ma lo mette anche in una condizione di esperienza inusitata rispetto al passato, alla quale essa stessa non può dare risposte. L’esperienza dell’uomo, il suo esistere è progetto, è impresa, l’uomo esiste quando ha un futuro davanti a sé, nelle cose pratiche. L’uomo pensa anche alla morte, ma come a una cosa lontana, alla quale si reagisce organizzandosi la vita, tant’è che anche nelle persone più mature la preparazione alla morte avviene attraverso il rilancio della vita: si crescono i figli, ci sono i nipoti, in fondo si muore non morendo, si lascia qualcosa. E’ qui, allora, che le terapie del dolore mettono in evidenza un effetto boomerang della medicina: la tecnica continua a procedere, ma perde efficacia rispetto alla sanità e viene meno il rapporto fiduciario, di tipo illuministico, nei confronti della medicina. Infatti, spesso, dinanzi a problematiche di questo genere, il medico fugge, perché non può più assolvere al suo compito di medico che è quello di curare: dovrebbe diventare altro e, soprattutto, dovrebbe incontrare l’altro, l’altro uomo, il sofferente.
Tutto ciò perché la medicina, sia quella di corsia sia, ovviamente, quella speri ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!