Come vedi la situazione in Israele e le prospettive di pace?
Ho la convinzione molto semplice e ottimistica che nel giro di pochissimi anni si arriverà alla soluzione di due stati, uno israeliano e uno palestinese, e ad una specie di confederazione fra Israele, il futuro stato palestinese e la Giordania. Ne sono convinto per dei motivi che sono molto complicati. Intanto va detto che la Giordania è un’incognita, re Hussein è malato di cancro e alla sua morte potrebbe succedere di tutto. Personalmente credo che non succederà nulla, sia perché, appunto, è un’incognita preannunciata da tempo e a cui, quindi, la gente è preparata, sia perché a nessuno oggi interessa una destabilizzazione della Giordania e quindi dell’intera area del Medio Oriente. Il processo è contrario, va verso la stabilità.
Per quanto riguarda Israele sono convinto che agli israeliani stia succedendo quello che successe ai francesi rispetto all’Algeria o agli americani rispetto al Vietnam. Stiano arrivando, cioè, al punto in cui la gente dice: “in fondo chi ce lo fa fare”, “non ne possiamo più”.
E’ una situazione che in Israele a nessuno piace, se non ai coloni o a gente molto motivata ideologicamente. Se prendi una scena di vita quotidiana, per esempio vai sul lungo mare di Tel Aviv, dove ci sono i caffè, i ristoranti, la gente che passeggia, i russi che suonano, i giocolieri, sembra di essere a Parigi con in più il mare ed è bellissimo, con la gente che sta nei caffè a discutere dell’ultima mostra che è stata portata da Dusseldorf o dello spettacolo arrivato da Londra; poi, però, a 40 chilometri da lì, c’è l’Intifada e ci sono altre leggi. E’ una schizofrenia che la gente fa fatica a reggere. E’ appunto la stessa cosa che successe agli americani quando vedevano in tv il Vietnam, con la differenza che in Israele non lo vedono in tv, ma è lì, dietro l’angolo. L’esercito israeliano è formato in gran parte da soldati della riserva, da gente, cioè, che una volta all’anno fa sei-sette settimane di servizio militare, da normali padri di famiglia che stanno facendo carriera, hanno figli, hanno una casa, e che una volta l’anno devono andare a Gaza a fare delle cose. A me è capitato di leggere una lettera che dei soldati della riserva, dopo il loro periodo di servizio militare, avevano spedito al primo ministro, dove dicevano che a Gaza non ci sarebbero più andati. Ho chiesto all’animatore di questo gruppo il motivo, cosa fosse successo. E la sua risposta è stata che non era successo niente più del solito, ma che si era accorto che in Gaza diventava fascista. “E se sono fascista in Gaza lo sono inevitabilmente anche a Tel Aviv. A me degli arabi non è che mi freghi molto, ma del mio rapporto coi miei bambini e con mia moglie sì, molto. E poiché quello che mi costringono a fare in Gaza influisce nei rapporti con mia moglie e i miei figli, io non ci voglio tornare”.
Credo che sia più o meno il processo che è avvenuto in America col Vietnam, cioè la crescita di una grande voglia di andarsene da lì. E questa grande voglia io credo si inserisca su un processo globale di stabilizzazione del Medio Oriente. Dopo la guerra contro l’Irak il processo è verso la stabilizzazione, cioè il contrario di quello che c’è in Europa.
Ma una pace raggiunta in questo modo, per stanchezza, non rischia di essere una pace debole, mediocre?
Intanto credo che la pace non richieda virtù eroiche, ma che, in un certo senso, richieda la mediocrità, l’accettazione del compromesso, dei limiti, dei confini di se stessi. Per esempio c’è un gruppo pacifista israeliano, formato da soldati della riserva, che si chiama “Yesh Gvul”, che vuol dire “C’è un limite”. C’è un limite a noi stessi, c’è un limite a tutto.
In realtà io credo che i veri problemi arriveranno dopo la pace. Perché lì, a differenza del Vietnam che era lontanis ...[continua]
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