Pier Paolo Poggio lavora come storico presso la Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia. Recentemente ha pubblicato Nazismo e revisionismo storico, edito da Manifestolibri.

Il vostro progetto per un museo dell’industria sta facendo grandi passi avanti. Ci puoi raccontare da dove è nato questo progetto che è molto ambizioso?
Una premessa: negli ultimi anni, come Fondazione Micheletti, ci siamo abbastanza interessati al cosiddetto revisionismo storico e penso, anche se può sembrare un approccio un po’ curioso, che il museo, in qualche misura, potrà essere una risposta a questo fenomeno. In realtà il revisionismo storico, anche se in Italia è stato molto ideologizzato ed è diventato un fronte di battaglia politica, è il segnale di un problema molto importante per le nostre società: la difficoltà ad aver un rapporto con la storia. Come già prevedeva Anders, a cavallo del ’68, siamo entrati in una dimensione di presente assoluto: la società ipertecnologizzata diventa una società astorica che tende a cancellare, a tagliare i rapporti con il passato.
L’enorme velocità delle trasformazioni, in primis tecnologiche, cambia completamente il modo di vivere e rende difficile il rapporto tra le generazioni. Cosa si racconta a un giovane per cui la nostra esperienza di quarant’anni fa è uguale a quella dell’epoca dei dinosauri? Questo è il primo problema.
Nello stesso tempo, però, si fa sempre più un uso politico della storia, il che è solo apparentemente in contraddizione con la prima tendenza. Quando c’è un confronto politico, ideologico, si va a pescare nella storia e la si utilizza all’occasione per quello che può servire. Questi due fenomeni si sviluppano nel contesto di un’evidente crisi epistemologica per cui le teorie forti della storia, il marxismo ma non solo, vengono destrutturate, demolite e si afferma la storia narrativa, la storia del soggetto, la storia della vita quotidiana, ecc.
In questa situazione si incontra una grande difficoltà nel fare storia, non solo per gli specialisti. A noi piace fare ricerca storica, anche filologicamente accurata quando ci riusciamo, però sappiamo, e lo sapevamo già trent’anni fa quando abbiamo iniziato questa esperienza, che queste ricerche hanno un ambito e un pubblico molto ristretto. In realtà non riescono ad arrivare neanche a un’opinione pubblica colta. E allora come uscirne? Facciamo le nostre ricerchine, poi ce le leggiamo fra di noi, e finisce tutto lì?
Così, discutendo, parlando, tra di noi, abbiamo cominciato a pensare alla possibilità del riutilizzo di un vecchio strumento come il museo. Il progetto del museo nasce da una riflessione su questi tre fenomeni: la crisi dei paradigmi storiografici, il dilagare del revisionismo storico, incontenibile anche se poi spesso inconsistente, questa crescente difficoltà di rapporto con il passato. Ci siamo detti che un museo aveva senso se poteva essere utile a riconquistare un dialogo, un confronto, un conflitto, con chi è ormai abituato a usare la storia in modo meramente e unicamente strumentale; un museo, quindi, per contrastare da un lato il disinteresse per la storia, dall’altro il suo uso strumentale. In questo noi vorremmo andare controcorrente. Questo come premessa pseudometodologica al museo.
L’altra premessa fondamentale nasceva dalla considerazione che i musei del lavoro, i musei dell’industria esistenti erano nati tutti in un clima ottocentesco di esaltazione del progresso. Un museo che nasce nel 2000 deve invece recuperare un uso che sia di comunicazione, di divulgazione e però anche di conoscenza critica del passato, alla fine del ciclo del progresso.
Dicevi che siete partiti in qualche modo dall’archeologia industriale?
Come Fondazione Micheletti, già negli anni Settanta, avevamo cominciato a indagare e a documentare, se non proprio a interpretare, fenomeni tra loro correlati, come i processi di deindustrializzazione e delocalizzazione della struttura industriale e il cosiddetto passaggio dal fordismo al postfordismo.
Alcune delle grandi fabbriche vicino a dove lavoravamo chiudevano o venivano trasferite, o cambiavano natura. Le vedevamo occupate, con queste tristi bandiere rosse che poi non portavano mai ad una vittoria, ma -bene che andasse- a una chiusura il più possibile indolore. Era la fine di un ciclo, che storicamente aveva caratterizzato solo alcuni decenni, e che però significava qualcosa di molto importante per i protagonisti. Di lì nacque il nostro interesse per l’archeol ...[continua]

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