Maurizio Lazzarini, 36 anni, è direttore didattico a San Lazzaro di Savena. E’ presidente del Laboratorio d’animazione Mangiafuoco di Castel S. Pietro.

Nell’intervista a una professoressa nel numero scorso era citato questo corso sulla multiculturalità che avevi tenuto a Verona. Come Movimento Cooperativo Educativo vi occupate molto dei rapporti con le altre culture, e inoltre tu sei direttore didattico e quindi di questi problemi ne hai esperienza diretta, sul campo. Puoi raccontarci?
Questa esperienza di giochi sulle culture “altre” è un po’ vecchiotta in verità, nel senso che è nata una decina di anni fa e da allora con un gruppo di lavoro che si chiama Laboratorio di animazione Mangiafuoco, la portiamo avanti. Era il 1985, gli anni di Comiso, c’era ancora un clima da impero del male e si parlava molto di educazione alla pace, educazione ai rapporti, ma sempre come se fosse una forma di galateo da imparare, basato su un generico “vogliamoci bene, dobbiamo star bene...”. Le contraddizioni non venivano mai affrontate di petto. Noi siamo partiti da una domanda: la pace è annullare l’aggressività o è prenderne coscienza, convogliarla, discuterne, contrattarla? Il conflitto è sempre da evitare? E cosa si intende per conflitto? Qual è il limite del conflitto? La nostra convinzione era che il conflitto qualche volta andasse affrontato, anche perché, spesso, i giochi di potere si svolgono molto di più sulla contrattazione che precede il conflitto che non nel conflitto stesso. Ormai sono 10 anni di lavoro, abbiamo approfondito alcuni temi fra cui quello delle culture “altre” che nel frattempo era esploso: nell’85 il problema degli extra-comunitari ha cominciato a suscitare forti discussioni, è dell’86-’87 la prima circolare di scolarizzazione dei bambini nomadi. E faccio subito un esempio per darvi un’idea del problema concreto: qui nella mia scuola ci sono 18 ragazzini nomadi, e l’anno scorso da un campo è arrivata una malattia poco simpatica, l’epatite, che ha coinvolto un’intera classe. In un caso simile, dove viene messa a rischio l’integrità fisica, metti in gioco davvero l’integrazione.
E sulle culture altre ci siamo poi posti altre domande: con gli intolleranti dobbiamo discutere? Qual è il confronto che ci può essere fra noi e un islamico integralista? Noi dobbiamo sempre essere tolleranti? E se noi siamo sempre tolleranti loro cosa pensano della nostra tolleranza? Che è debolezza?
Allora abbiamo cominciato a proporre delle provocazioni sotto forma di giochi, in particolare di ruolo. E senza essere né psichiatri, né psicanalisti, né psicoterapeuti: non ci interessa in quel senso; siamo in ricerca anche noi, anche il gruppo che conduce, che fa delle proposte è in ricerca e impara dalle altre persone, tutti abbiamo altre professioni. Il gioco è bello perché serve a tutti, sia a quello che si immedesima, e quindi cerca di portare avanti le ragioni dell’altro, sia all’altro perché estremizza le proprie ragioni e allora, attraverso la discussione, può venire fuori l’incontro. Uno dei giochi che facciamo si basa sulla simulazione dell’incontro al bar tra due gruppi, un bel gruppo di razzisti, il peggio con qualche leghista arrabbiato che era appena tornato da una commissione edilizia dove non so che case avessero assegnato, e un gruppo di quattro persone che aveva appena finito di frequentare uno stage sulle culture “altre”: e anche lì baruffe, discussioni a non finire su fino a che punto si deve essere tolleranti con gli intolleranti. Comunque l’idea di base è quella di fare delle esperienze, ripeto, in forma di gioco, quindi con un inizio, uno svolgimento e una fine, che non coinvolge mai le persone direttamente, ma coinvolge dei ruoli, quindi crea una situazione, come dire, “in vitro”: “adesso io gioco a fare il razzista...”, non lo sono, però gioco a farlo, e sono fetente, dò sfogo a tutte le ansie, i risentimenti, le cattiverie di un razzista, dopodiché, finito il gioco, discutiamo.
In particolare in questi ultimi tempi, abbiamo fatto diversi giochi di ruolo legati a situazioni concrete, ispirate alla cronaca: è il caso francese dello chador a scuola. Abbiamo simulato, proprio a Verona, come quella professoressa ricordava, una classe con una supplente che stava facendo una lezione sulle crociate e mentre stava dicendo le solite cose improvvisamente entrano due studentesse con lo chador. Qual è il problema? Non c’è problema, tutto va bene: “come vi chiamate? Come state? “. Le persone che ...[continua]

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