Nel tuo libro su Piazza Fontana citi la guerra d’Algeria come una situazione in cui si è cominciato a praticare l’uso di mezzi non democratici per difendere la democrazia...
E’ la teoria della guerra non ortodossa, che ha origine, da una parte, all’interno degli uffici di studi psicologici degli Stati maggiori statunitensi, fin dai primi anni di guerra fredda, sugli strumenti per contenere il comunismo; dall’altra, negli uffici psicologici dell’Armée, che prima in Indocina e poi in Algeria approdano all’idea che la democrazia (o almeno i valori che loro identificano essere della democrazia) può e anzi deve essere difesa anche non seguendo metodi democratici, contrapponendosi al terrorismo in maniera terrorizzante e stravolgendo ogni regola e ogni legalità. E’ un paradosso denso di conseguenze gravissime.
Così vediamo che una parte dei gruppi di studio che erano all’interno dell’Armée finisce dentro l’Organisation Armée Secrète (Oas) e poi nell’organizzazione di Guerin-Serac, venuta in luce anche nelle inchieste del giudice Salvini rispetto a Piazza Fontana.
L’Italia, soprattutto come uffici dello Stato maggiore della Difesa e loro consulenti (i signori Giannettini), attinge all’esperienza della guerra non ortodossa francese, facendo emergere una doppiezza di comportamenti, di strumenti operativi, di comandi, strutture parallele atte ad agire in maniera sommersa. E il primo laboratorio è sicuramente la guerra dei tralicci in Alto Adige contro il separatismo altoatesino.
Quindi l’Alto Adige può essere considerato l’anticamera della strategia della tensione in Italia?
La cosiddetta “strategia della tensione” è certamente una risposta all’autunno caldo e alla grande stagione della contestazione, ma gli strumenti dispiegati contro la mobilitazione popolare non vengono improvvisati nell’arco di pochi mesi; hanno la loro preparazione con una lunga gestazione in quella sorta di laboratorio che è la guerra dei tralicci, una sorta di guerra sporca contro il separatismo altoatesino. Se, infatti, guardiamo i protagonisti delle omissioni e dei depistaggi dentro i servizi e i corpi di sicurezza della strategia della tensione, scopriamo che in buona parte è gente che è stata impegnata sul campo in Alto Adige. Ogni volta che c’era la possibilità di un accordo internazionale di pacificazione e di dialogo, si metteva in atto una qualche provocazione per incrementare l’ostilità. E infiltrazione e provocazione sono i classici strumenti di guerra non ortodossa.
Su questo la Commissione stragi, quando era ancora un po’ più presente, ha lavorato parecchio elaborando relazioni importanti che mostrano come in quella situazione si sia scritta una pagina da manuale sul doppio Stato, su come in tempi di pace si possano combattere guerre non dichiarate, si possano scontrare eserciti non in divisa.
Tu dicevi che la struttura del doppio Stato è emersa, e non che è nata, con l’Alto Adige. Quindi c’era già. Cosa intendi?
Credo che nel nostro paese, ma forse anche in altri, il doppio Stato e, quindi, le duplici sovranità siano una costante, non l’eccezione; come si fa a stupirsi dell’esistenza di poteri nascosti e sommersi dietro a quelli che, invece, sono visibili?
E’ una meraviglia che bisognerebbe dissipare, forse con un po’ di ricerca storica e di riflessione.
Pensiamo ai decenni successivi all’unificazione nazionale: nel Regno d’Italia esisteva un doppio o forse triplo Stato, perché accanto al Parlamento e ai governi espressi da questo c’erano la Corona e un interesse dinastico dei Savoia che s’imponevano nei momenti di contrapposizione con un altro potere, quello parlamentare. Poi, a metà strada, c’era lo Stato maggiore, il cui ruolo divenne rilevante su una serie di temi di politica estera e di politica militare. Da notare, fra l’altro, che seppur una serie di capi militari furono cooptati dagli eserciti dell’Italia pre-unificata, chi continuava a reggere gli organismi più delicati, a cominciare dal Ministero della guerra, sempre in mano ai militari, erano soprattutto gli ufficiali dello Stato maggiore del Genio, oppure dei bersaglieri, che rappresentavano proprio la piemontesità, la “sabaudità doc”. C’era, cioè, una sorta di genealogia: si passavano il basto ...[continua]
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