Zelinda Roccia, sarda, ex insegnante di lettere, ex organizzatrice teatrale, da dieci anni vive in Nicaragua, dove ha fondato e dirige l’Asociacion Los Quinchos (www.losquinchos.org), che si occupa di bambini e ragazzi di strada, e dove è membro del comitato direttivo della Federazione delle comunità terapeutiche.

Come è cominciata questa avventura? Abbastanza per caso. Sicuramente per rabbia. Nel 1988 stavo facendo un giro da sola per alcuni paesi del Centroamerica, volevo andare anche in Nicaragua. Non avevo pensato che arrivarci dall’Honduras, in quegli anni, non era esattamente una passeggiata.
Dovevo passare la frontiera tra Honduras e Nicaragua ma nessuno ti portava fino a lì. Né autobus né taxi. Si era ancora in piena guerra tra contras finanziati dagli Stati Uniti e sandinisti. La frontiera era su un ponte su cui nessuno si avventurava. L’unico modo per passare era a piedi. Al di qua del ponte c’erano gli honduregni, protettori dei contras, che mi insultavano dicendo “puttana comunista”, di là c’erano i guerriglieri sandinisti e, sulle montagne intorno, la contra che a suo piacimento sparava o no a chi passava sul ponte. Non avevo scelta. Mi incamminai. Ad ogni passo mi aspettavo un colpo. I sandinisti mi urlavano “dai compagna, dai che ce la fai,”. Come vedi, ce l’ho fatta. Quando sono arrivata di là tutti mi abbracciavano. E’ stata un’emozione fortissima, quei guerriglieri erano dei ragazzini. Con un autobus poi sono andata a Managua e ci sono rimasta un mese.

Avevo visto los niños de la calle in Messico, Guatemala, paesi dove il problema c’era già da anni. In Nicaragua invece praticamente non esisteva. Il governo sandinista garantiva l’educazione, la sanità e la canasta basica, cioè il minimo alimentare. I pochi bambini che si cominciavano a vedere in strada erano quasi tutti orfani di guerra. Quindi non sono stata colpita dai bambini ma da quei tre bambini. Erano molto piccoli e dormivano in un cerchione di camion. Non erano diversi da altri bambini, non ho parlato con loro, non è successo niente. Non so perché proprio quei tre hanno fatto scattare la molla, la rabbia. Una rabbia così grande che ho deciso in quel momento esatto di lasciare tutto e lavorare con loro. E questa rabbia dura sempre, perché da allora la situazione è tremendamente peggiorata e ogni giorno ne vedi di tutti i colori.

In realtà poi ci sono tornata solo nel ’91. Per tre anni ho dovuto lottare in Italia per ottenere il prepensionamento. Alla fine ce l’ho fatta e sono ripartita. Sola, senza sapere bene come organizzarmi, senza nessun appoggio. Ho iniziato a lavorare nei barrios più miserabili, come il Dimitrof, dove ora non entra nemmeno la polizia, e negli asientamientos, gli insediamenti dove la gente vive in baracche fatiscenti, costruite con pochi pezzi di lamiera messi insieme o con teli di plastica neri. Gente che veniva da tutto il Nicaragua. Vedevo gli aspetti più brutali del postsandinismo. Era già passato l’ordine di ridare ai proprietari le terre che la rivoluzione aveva confiscato e redistribuito ai campesinos. Così i grandi latifondisti scappati a Miami ritornavano e si riprendevano le terre. Quando la polizia non riusciva a mandare via i contadini, i proprietari arrivavano con le loro squadre armate, li cacciavano con la forza, loro scappavano a Managua e formavano gli asientamientos. E’ dal problema delle terre che nascono i primi bambini di strada. Le famiglie andavano in città, non trovavano niente, gli uomini, tutti compas o contras, erano pochi. Se non erano morti erano scappati o spariti nelle frontiere, mettici in più il machismo nica, fatto sta che la maggior parte delle donne si ritrovavano sole. Giravano tutta la giornata per strada alla ricerca di un lavoro, lasciando i bambini soli in queste capanne. Mi capitava a volte di sbirciare tra le assi o nei buchi della plastica. I bambini erano legati con catene per paura che scappassero, alcuni quasi senza capelli perché per la fame e la paura se li strappavano.

Che faccio?, continuavo a chiedermi. Ho scritto lettere e lettere, qualche amico ha cominciato ad appoggiarmi un po’ ma più di tanto non potevano fare, gli organismi potenti non mi conoscevano e avevano progetti grandiosi strade, ospedali, acquedotti, quando parlavo di bambini mi guardavano come se fossi un po’ matta. In quei primi tempi vivevo in una pensione. Pensavo, potrei aprire un comedor, perché questi bambini hanno bisogno soprattutto di mangiare, sono denutriti ...[continua]

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