Michele Gallucci è direttore della Scuola di Medicina e Cure Palliative di Milano.

Vorrei iniziare il mio intervento parlando di dignità, una parola che sta facendo il giro del mondo, per così dire, perché tratta del problema di come deve essere curata la gente alla fine della vita. Ormai, in tutte le lingue, non si parla più di buona morte, di morte accettata, ma di morte dignitosa. Ma perché il problema delle cure di fine vita è così importante? Come tutti sappiamo, in Italia abbiamo la popolazione più vecchia del mondo. Questo è un effetto positivo dei progressi della medicina; senonché questi progressi, se hanno ottenuto di guarire o curare indefinitamente quasi tutte le malattie, non hanno ottenuto un prolungamento infinito della vita. Siamo tutti consapevoli che la vita ha un limite; potremo spostarlo ulteriormente, non saranno più gli ottant’anni ma, forse, i novanta, i cento, i centoventi, ma non è questo il problema. Il problema è che un limite certamente esiste e noi attualmente vi stiamo portando la maggior parte della popolazione italiana. Quindi per noi il problema è più urgente: abbiamo circa trecentomila malati all’anno che muoiono e che hanno o avranno sempre più bisogno di cure di fine vita, cioè di terapie del dolore e di cure palliative. E’ lì che l’intensità del bisogno diventa massima; e non stiamo parlando solo di malati di cancro; verso il limite della vita si stanno avviando i malati di tutte le altre malattie per cui prima o poi si può morire, e sono tanti quanti i malati di cancro (150.000 all’anno, mentre altri 150.000 sono i malati di altre malattie). Questo è il primo aspetto della questione, di natura prettamente epidemiologica. Se facciamo una ricerca su internet e digitiamo “terapia del dolore” su un qualsiasi motore di ricerca, per esempio google, troveremo 500.000 siti; se cerchiamo “cure palliative” ne troveremo tre milioni; se invece cerchiamo “cure di fine vita” i siti saranno ventinove milioni. Questa è l’entità dell’interesse per questo specifico problema, anche in paesi più avanzati del nostro, un problema diventato addirittura assillante. Ma perché ci assilla? Perché un uomo o una donna di sessantacinque anni, oggi, possono sperare ancora in quindici anni, vent’anni di vita (quindici gli uomini, venti le donne). Questo è positivo, certo, però, come dire, la mela è avvelenata. Perché dentro questi quindici o vent’anni, ce ne sono almeno tre per gli uomini e quattro per le donne di grave inabilità. Ecco quindi che prevedibilmente dovremo curare persone che, avvicinandosi alla fine della vita, progressivamente diverranno sempre più inabili. Questo è il problema, e ci riguarda tutti. Ma ci riguarda tutti perché non è una questione esclusivamente clinica, non è solo un problema di cure palliative; quelle le sappiamo fare abbastanza bene, il dolore ormai sappiamo come curarlo, e lo faremo sempre meglio; anzi, l’idea che le cure palliative debbano essere estese a tutta la medicina ormai è già ampiamente diffusa; si fa la radioterapia palliativa, la chirurgia palliativa. E’ solo un problema organizzativo quello di definire molto bene un ambito che sta diventando il problema numero uno almeno nei paesi occidentali. E’ che come la gente muore non ha a che fare solo con la medicina. Anzi, così come diceva un famoso generale della prima guerra mondiale, “la guerra è troppo importante per lasciarla fare ai generale”, altrettanto, noi diciamo: la morte delle persone è troppo importante per lasciarla gestire ai medici. Perché la morte non possiede solo una dimensione clinica, non è solo il mio organo malato a morire, sono io come persona che muoio. E io come persona non sono solo la biologia degli esami del sangue o dell’organo malato, io sono anche la mia biografia. Sono la mia storia, la mia cultura, i miei desideri, i miei sogni, i miei affetti. E io sono anche portatore di interessi e, soprattutto, sono portatore di dignità. In questi mesi e in questi anni sono state scritte biblioteche intere su questo tema, su che cosa significhi e in che cosa consista la dignità di una persona che sta morendo. Sicuramente è una dimensione etica, all’interno della quale ci sono elementi come il consenso informato: “mi dovete comunicare che cos’ho, mi dovete dire che sto morendo, perché magari tocca a me prendere delle decisioni importanti”; le direttive anticipate: “dico adesso cosa vorrei che fosse fatto nel caso che tra un po’ di tempo non sia più in condizioni di poter decider ...[continua]

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