20 giugno 2006
A trent’anni di distanza, negli Stati Uniti molti veterani del Vietnam accusano un intensificarsi dei sintomi da Post Traumatic Stress Disorders (Ptsd). Una ragione pare essere la profusione di immagini che arrivano dall’Iraq e la quotidiana conta dei morti. Pur in assenza di studi e indagini diffuse, John P. Wilson ha reso noti i risultati di una ricerca su un campione ristretto: il 57% dopo aver visto i notiziari ha avuto dei flashback; il 47% ha disturbi del sonno. Dall’inizio della guerra il 44% è caduto in una forma di depressione e circa il 30% è entrato in terapia.
L’aumento improvviso dei casi potrebbe essere dovuto anche all’invecchiamento della generazione del Vietnam. L’età della pensione libera del tempo per pensare e non per tutti questo è un dato positivo. Max Cleland, già senatore della Georgia e capo del Dipartimento che si occupa dei Veterani, costretto a subire una tripla amputazione in seguito alla guerra del Vietnam, ha raccontato come la “convergenza” tra età e guerra in Iraq avrebbe creato molti problemi ai suoi compagni -oltre che a lui stesso: “Man mano che invecchiamo diventiamo più vulnerabili. Quando nel 2003 è iniziata la guerra, è stato come tornare indietro nel tempo, come vivere di nuovo nel ‘68”. In terapia presso il Walter Reed Medical Center, non legge più un quotidiano, né guarda la tv. Tutto lo ferisce.
L’Iraq agli occhi di molti è diventato “un Vietnam senz’acqua”. (Washington Post)
22 giugno 2006
Il libricino divenuto oggetto di grandi polemiche, fino allo scorso marzo era quasi introvabile negli Usa. Amazon non Io dava disponibile. Philip Weiss è riuscito ad averlo facendosi mandare dal Michigan le fotocopie dell’edizione inglese.
Il libro in questione è la sceneggiatura di “My Name Is Rachel Corrie”, le annotazioni quotidiane e le email della ventitreenne originaria dello Stato di Washington, morta tre anni fa a Gaza schiacciata da un bulldozer dell’esercito israeliano. Rachel era in Medioriente con l’Ism, International Solidarity Movement, un gruppo che recluta occidentali disposti a fare da “scudi umani” contro le aggressioni dell’esercito israeliano. E’ morta schiacciata da un bulldozer in procinto di demolire la casa di un farmacista palestinese. In base ai resoconti dei testimoni, Rachel, che indossava un giubbotto arancione fosforescente, era assolutamente visibile. Le indagini condotte all’interno dell’esercito non hanno individuato alcun responsabile.
“My name is Rachel Corrie” è l’autoritratto di una giovane donna, impegnata a combattere per i propri obiettivi, ma anche una denuncia degli orrori dell’occupazione israeliana. A Londra il monologo ha fatto il tutto esaurito per quattro settimane. Ad autunno è stato riproposto in un teatro più grande ripetendo il successo. Molti spettatori, alla fine della rappresentazione, tendevano ad andarsene in silenzio, turbati, ma alcune sere il teatro si trasformava in un luogo di discussione. Dopo i successi londinesi, lo spettacolo è tuttavia diventato famoso dopo che una compagnia teatrale newyorkese ha deciso di rinviare la prima a data da destinarsi, per via della sensibilità di alcuni (non meglio noti) gruppi ebraici, sconvolti dalla vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi.
Quando i produttori hanno reso nota la decisione della compagnia newyorkese accusandola di aver compiuto una censura, la faccenda è diventata un “caso”. Rimarrà senza risposte la domanda se la decisione del Workshop sia stata autonoma o in qualche modo orchestrata. Certo l’episodio ha messo in luce un clima di paura, non fisica, ma legata alla sgradevole sensazione di non poter dire più nulla. “I filoisraeliani hanno sempre temuto che se gli americani avessero cominciato a discutere francamente di cosa accade a Tel Aviv, noi tutti saremmo divenuti più neutrali nel nostro approccio alle questioni mediorientali”.
D’altra parte già all’indomani della sua morte voci filoisraeliane avevano cercato di screditarne la figura accusandola di essere una “serva” dei terroristi. Secondo la loro versione l’esercito stava solo cercando di chiudere le vie di accesso per le armi in arrivo dall’Egitto verso i Territori Occupati. Sono circolate email piene di odio; una di queste diceva: “Rachel Corrie non avrà le 72 vergini, ma comunque ha avuto quello che voleva”. (The Nation)
23 giugno 2006
Dopo il massiccio sciopero della fame dello scorso settembre, che aveva coinvolto più di 100 prigionieri, presto costretti a tornare a mangiare o semplicemente legati e alimentati a forza con sondini per via nasale, i più determinati avevano individuato un altro modo per attirare l’attenzione alla causa: il suicidio.
Yasser Talal al-Zahrani non voleva morire, bensì fare una dichiarazione. E non c’era solo l’ideologia dietro: una specie di leggenda metropolitana ha preso piede a Guantanamo: “Se tre prigionieri si uccidono, verranno tutti rilasciati”.
Non aveva accesso a farmaci, né ad oggetti taglienti. Aveva però i suoi vestiti, dai quali ha ricavato una specie di corda. Così il 10 giugno, verso mezzanotte, ha imbottito il letto, ha scritto due righe, si è spinto in bocca un tampone di stoffa -“la discrezione era essenziale”- e poi si è appeso con i panni ad asciugare dal soffitto. Lo stesso hanno fatto i suoi colleghi. Un alto ufficiale americano ha definito questo suicidio “una buona mossa di pubblic relation”.
Yasser Talal al-Zahrani, all’arrivo a Guantanamo aveva 17 anni. Chissà se era innocente. Nato in Arabia Saudita, a 16 anni era in Afghanistan; a lavorare per opere di carità, dice la famiglia; a introdurre armi per i talebani, secondo gli americani.
E’ morto a 21 anni. (The Economist, rubrica “Obituary”)
27 giugno 2006
Discutevamo con un insigne giurista se fosse giusto buttar via tutta “la Castelli”. Ha raccontato che a un convegno internazionale di tanti anni fa, aveva chiesto a una giurista scandinava, con alte responsabilità: “Ma da voi è il ministro a nominare i pubblici ministeri. Non avete paura che possa condizionarli politicamente?”. E lei, sgranando gli occhi stupefatta: “Ma se un ministro facesse questo dovrebbe dimettersi!”.
29 giugno 2006
Si sta scatenando la caccia alle streghe antisemite. Viviamo in un tempo di ossimori. Leggersi Foner a pag. 17.
30 giugno 2006
Hanno sfidato un caldo insopportabile e si sono mobilitate in decine di migliaia, ma non hanno votato una donna.
Alle elezioni dello scorso 29 giugno, le prime in assoluto per le donne del Kuwait, nessuna delle 27 candidate (su 250) ha ottenuto i voti sufficienti per entrare in Parlamento. Un risultato inatteso, dato che le donne rappresentano quasi il 60% dell’elettorato.
Prevista per il 2007, la consultazione era stata anticipata dall’emiro Sheik Sabah al-Ahmad al-Sabah a causa dei diffusi appelli per una riforma. A quel punto le donne, prive di qualunque esperienza politica, senza alcuna organizzazione alle spalle, si sono trovate con poche settimane per prepararsi.
Nonostante l’esito, la semplice presenza delle donne ha cambiato il panorama politico dell’emirato. Anche i leader più conservatori e contrari al voto alle donne sono stati costretti a inserire le questioni femminili nella loro agenda politica.
Rashid, già membro del parlamento, in lizza per essere rieletto si è vantato di aver incontrato molte donne e aver chiesto loro quali fossero le loro esigenze. “L’elettorato femminile è importante e le loro istanze saranno prese in considerazione dal prossimo parlamento”, ha aggiunto. Fuori dai seggi, i sostenitori di Rashid, in maglietta arancione e foulard colorati, hanno aperto le portiere delle macchine alle donne che si presentavano a votare e le hanno scortate sotto ombrelli argentati per ripararle dal sole cocente. “Votate per Basil al-Rashid, se lo merita” dicevano, distribuendo rose dal gambo lungo.
Una volta all’interno le donne sono state in coda per ore, volantini e brochure usati come ventagli, nel giorno più caldo dell’anno in Kuwait -circa 48°. Per alcune il voto è stato vissuto quasi come un’esperienza mistica. Le più militanti hanno sentito che davanti a quell’urna stavano in qualche modo “facendo la storia”. Rabah Ali Boubian, 58 anni, casalinga, costretta in sedia a rotelle, ha spiegato che né il caldo né la folla né la malattia avrebbero potuto fermarla quel giorno. (Washington Post)
30 giugno 2006
Evviva. Forse avremo il bene di vedere anche in Italia un tassista nero!
1 luglio 2006
Succede, qualche volta, che un evento cambi radicalmente la percezione complessiva di ciò che accade, anche se, in effetti, l’evento in sé non è sconvolgente.
Potrebbe essere questo il caso della spedizione punitiva dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza, dell’uccisione di vari palestinesi, definiti militanti o civili, della distruzione dell’ufficio del Primo ministro e dell’arresto di una parte del Governo palestinese.
E’ inutile continuare a parlare di Israele/Palestina, a confrontare proposte e progetti, riconoscimenti impliciti e prospettive politiche, dialoghi possibili, o segreti e unilateralismi. C’è un solo soggetto nell’area, lo Stato di Israele, una sola forza militare, Tsahal, un solo potere e una sola responsabilità, quella del governo Olmert.
Lo hanno sempre detto. Ora lo hanno anche fatto.
Il resto sono parole. Ci sono armati che non rispondono al governo di Israele nei Territori, ma la loro forza nei confronti della potenza dominante è minore di quella dei privati violenti nella maggior parte degli stati, democratici e non.
Ci sono più soggetti capaci di azione politica e militare autonoma in Iraq sotto occupazione che in Israele e nei Territori occupati.
Certo, se ci si informa, si scopre che esponenti politici si sono riuniti nell’ufficio distrutto del Primo ministro palestinese, che i sequestratori del militare israeliano rilasciano interviste. Ma, come capacità di azione autonoma, non esistono. Potrebbero, diciamo così, arrendersi senza condizioni; dichiarare di non esistere. Ma potrebbero sempre essere arrestati lo stesso domattina, o uccisi domattina, e senza sapere ufficialmente perché.
Altro che Bantustan e Apartheid.
L’Apartheid era una divisione economicamente complementare, fino a che fu accettata dalla parte sottoposta. I parlamenti e i governi dei Bantustan avevano un potere abbastanza reale da indurre uno dei gruppi dominati ma potenti, gli zulu, Buthelezi e Zwelethini, a rifiutare le elezioni, che accettarono in extremis perché scavalcati dai loro sudditi, che volevano votare.
Questo è un enorme Cpt per famiglie, una Guantanamo di dimensioni regionali, un campo di concentramento sorvegliato solo dall’esterno, ma col controllo dell’aria, per cui si può sempre ammazzare e incarcerare chi si vuole.
Il problema è se siamo tutti disposti ad accettare l’esistenza di questi milioni di bipedi senza piume e senza diritti, spostabili ed espropriabili a volontà, condannabili a morte senza processo perché qualcuno sa che sono terroristi.
E’ ovvio che così non sono in condizioni di produrre i loro mezzi di sussistenza.
Mantenerli è il dovere prioritario di chi gli impedisce l’accesso alla terra, all’acqua, al mare.
Ho appreso dalla rassegna stampa di stamattina che a Guantanamo la interruzione violenta dei digiuni è stata giustificata con una dichiarazione che afferma che i detenuti non hanno il diritto di morire.
Non so se chi l’ha scritta sapesse di star replicando un manifesto che il Gauleiter di Varsavia fece affiggere, in tedesco e in polacco, prima dell’inverno del ’43, in cui si proibiva ai polacchi di vestirsi perché, come i loro uguali, i negri, non ne avrebbero avuto bisogno. Si proseguiva proibendo ai polacchi di mangiare, perché il cibo serviva alla Wehrmacht e di respirare, perché l’aria serviva alla Luftwaffe. Per concludere si proibiva ai polacchi di morire. Il manifesto è oggi visibile al Museo della città. Beh, questo non mi risulta ancora che sia stato scritto per la Palestina.
La domanda è: qual è il limite?
(Francesco Ciafaloni)
2 luglio 2006
Gaza. Di notte gli F16 sorvolano a volo radente le case facendo saltare tutti i vetri. I bambini riusciranno poi a dormire di giorno?
4 luglio 2006
Un libro da tradurre: Trece rosas rojas, di Carlos Fonseca (Ed. Temas de Hoy).
Tredici rose rosse, tredici giovanissime operaie spagnole fatte fucilare da Franco nel ‘39, pochi mesi dopo la fine della guerra civile. Riportiamo una pagina del libro.
4 Agosto 1939… Il rumore dei chiavistelli, il tintinnio delle chiavi e i passi delle funzionarie rimbombarono nel silenzio della notte. Una notte d’estate, calda, rotta solamente dai latrati lontani dei cani, dai colpi di tosse delle interne, dal pianto smorzato di alcuni bambini che soffrivano per essere loro figli, e dall’agitazione dei corpi che si sfioravano per la mancanza di spazio. Più di 4000 prigioniere in uno spazio destinato a 450, disposte tra celle, corridoi, scale e bagni.
Tutte sapevano ciò che stava per accadere e il carcere era tutto un brusio. La direttrice e la sua luogotenente si diressero prima al dipartimento minorile, al quale le autorità del carcere alludevano con il nome altisonante di Escuela de Santa María. In realtà non era niente più che una sala attrezzata con un enorme tabellone sostenuto alle estremità da due cavalletti, che faceva le veci di un tavolo, e diverse panche, dove le più giovani convivevano con due recluse che lavoravano come insegnanti, e un’ufficiale carceraria, Violeta, che tutte conoscevano come Zapatitos. Quelle che venivano internate lì godevano di uno spazio maggiore rispetto alle altre prigioniere ma, in cambio, non potevano uscire dal dipartimento se non venivano accompagnate dalla guardia. Il tabellone veniva ritirato di notte affinché le interne potessero stendere a terra le stuoia per dormire. E così le trovarono quando andarono a cercarle.
Anita, Ana López Gallego, aveva cucito fino a mezzanotte passata: una cinghia per libri in tela di sacco. “Credo che per stanotte posso andare a dormire”, disse con sollievo, e la sua amica Carmen convenne con lei. Fu allora che si aprì la porta. C’erano la signora direttrice e la sua funzionaria di fiducia, avvolta in un velo di colore blu navy. Aveva in mano la lista. Perfino la guardia si allarmò intuendo quello che stava per accadere. “Per Dio, signorina María Teresa, questo è terribile, questo è un crimine”.
Anita si alzò. Non aveva avuto il tempo di conciliare il sonno. E non aveva dubbi che fossero venute per loro.
“Non chiami le mie compagne, le chiamo io”.
E fu lei a svegliarle. Svegliò Victoria Muñoz e Martina Barroso. Loro tre erano le uniche condannate a rimanere nel dipartimento minorile, sebbene solo la prima avesse 18 anni, e altre ragazze della sua età o più giovani di lei fossero sparse nell’enorme caos che era la prigione. Martina aveva già compiuto 22 anni e Anita ne aveva 21.
“Povera mia madre!”.
Piangeva Victoria. E lo faceva con una cadenza nervosa, senza smancerie, più preoccupata per i propri parenti che per se stessa.
“La mia povera madre! Prima Juan, e ora Goyito e io”. Suo fratello Juan era morto in un commissariato per le bastonate ricevute, e Gregorio, Goyito, era stato fucilato il 18 maggio. Disperata, si aggrappò al collo di María del Carmen Cuesta e cominciò a gridare: “Mari, mi ammazzano! Mari, mi ammazzano!”.
La voce di Anita suonò ferma, ma non di rimprovero. “Per favore, Victoria, sii forte”. E Victoria Muñoz García, così si chiamava, smise di piangere.
Cominciarono a vestirsi con gli abiti migliori. E le calze. Le loro compagne le aiutavano come se lo stessero facendo con delle bambine. Con le mani tremanti. “Ho la cucitura delle calze a destra?”, chiese Anita. E tutte si abbracciarono.
“Martina mi disse prima di uscire: Mari, cerca di sistemare le cose perché ti uccideranno come noi -racconta María del Carmen Cuesta- Nessuna diceva niente, non potevamo quasi respirare. Molte si inginocchiarono, io insieme a loro, e rimanemmo così qualche istante. Avevamo paura ad alzarci. Eravamo spaventate”.
Il “prelievo” continuò per tutta la prigione, finché la lista non venne completata. Il carcere di Ventas non disponeva ancora di un passaggio per le condannate a morte e le funzionarie dovevano andare di sala in sala per cercare le donne presenti nell’ordine d’esecuzione. I nomi, i loro nomi, rimbombarono per le gallerie, viaggiarono di bocca in bocca: “Si portano via le ragazze”. Ana López Gallego, Victoria Muñoz García, Martina Barroso García, Virtudes González García, Luisa Rodríguez de la Fuente, Julia Conesa Conesa, Elena Gil Olaya, Dionisia Manzanero Sala, Joaquina López Laffite, Carmen Barrero Aguado, Pilar Bueno Ibáñez, Blanca Brisac Vázquez e Adelina García Casillas. Sì, anche Adelina, la mulatta, così come la conoscevano tutte per la sua pelle scura e le sue labbra carnose; l’unica interna che potesse muoversi senza problemi per tutta la prigione gridando i nomi delle destinatarie della corrispondenza. Tredici donne senza speranza.
26 giugno 2006
I ragazzi di Napoli... Abbiamo assistito a un seminario dei maestri di strada napoletani. Ecco uno stralcio.
Cesare. Questo discorso della criminalità giovanile dovrebbe uscire dai luoghi comuni, perché sistematicamente si sente dire: ma questi fanno delle cose che prima non si facevano. In primo luogo bisogna riconoscere che ci sono delle costanti, che gli atti delinquenziali giovanili fanno parte di un processo di sviluppo e questo c’è sempre stato. C’è un problema evolutivo: io voglio crescere, voglio diventare grande, mi sto separando da te. Non lo so fare in forme civili, lo faccio in forme delinquenziali. Il secondo aspetto è la forma che assume questa cosa: sta nei limiti? E’ l’inizio di una carriera? E’ una smargiassata? Il caso della ragazzina che ha rubato il telefonino è straordinario, perché parliamo di una delle persone più quiete, e invece s’è rubata un telefonino. E non c’è dubbio che comunque in città si vive un clima per cui il quindicenne che rapina col coltello, non dico l’amico, ma il vicino, del telefonino, è una cosa diffusa, che si respira, non è neanche più percepito come una trasgressione. Nel momento in cui tu pigli il telefonino per qualcun altro, per rivenderlo, già cambia il significato…
Poi è chiaro che se tu stai in un contesto grosso modo di legalità, di rispetto delle regole, l’atto di delinquenza giovanile rimane isolato, ma se tu stai in un contesto criminale in cui gli altri sono lì in attesa che qualcuno cresca abbastanza in capacità criminali per metterti al lavoro…
Francesca. E t’inducono.
Cesare. Io non lo so. Io tante volte questo non l’ho visto. Io so che ci sono dei ragazzi che fanno i criminali e poi si presentano all’arruolamento. Cioè stanno gridando ai quattro venti che loro sono capaci. L’induzione l’abbiamo vista nel caso di XXX, ma lì i genitori l’hanno regalato ai camorristi che andavano in carcere…
Francesca. Se non chiami induzione questa, va bene. Però, ad esempio, XXX, dopo che è stato arrestato e ha deciso di tirarsene fuori, racconta dei ragazzi che frequentava prima di finire a Poggioreale che gli girano attorno provocandolo…
Cesare. Tra ragazzi e ragazzi non c’è dubbio che c’è induzione. Ma questo anche fa parte delle dinamiche giovanili. Io però sto parlando dell’uomo di 40 anni che si “corteggia” il ragazzino per farlo diventare criminale. Allora nel caso di XXX è proprio quello che è successo. Però è stato un amore reciproco. Il problema è che XXX lo cercava perché il criminale gli dava quell’identità che la madre gli negava. Perché a 19 anni questo senza lavoro, senza niente, non era nessuno. Il criminale gli dava la motocicletta, la cocaina, gli dava gli incarichi, gli diceva fammi i servizi, a quel punto…
Però io insisto che l’elemento decisivo è il fatto che lui ci voleva andare. Là cinquanta volte la mamma s’è messa in mezzo, minacce, ecc. ma lui ci voleva andare, soprattutto perché respinto da altre parti… perché voleva sfidare… lui competeva con il padre morto…
Ciro. Anch’io da piccolo mi sono trovato di fronte a due persone che comunque rappresentavano… A 14 anni nel palazzo ce n’era uno, che aveva commesso diversi omicidi, chiuso in un bunker che mi insegnava a confezionare la cocaina. L’altro, pure lui cresciuto senza padre, mi aveva preso a cuore e quando mi vedeva diceva: “Questo che ci fa qua?”. Cioè litigavano: uno che voleva allontanarmi e l’altro che voleva la mia compagnia e mi insegnava a fare queste cose… e per fortuna che c’era quello che voleva cacciarmi, perché a me piaceva andare… E’ così, ci sono quelli che ti mettono sotto il palazzo a fare il palo e quelli che non vogliono. E poi ci sono pure i ragazzi che fanno di tutto…
Cesare. E poi c’è un’altra cosa. Questi signori, agli arresti domiciliari, spesso hanno bisogno di qualcuno con cui parlare. E poi hanno bisogno di un giovane come sono stati loro, a cui restituire… non un proselite, che è già un concetto criminale, hanno bisogno di una restituzione, di qualcuno che riconosca la loro importanza, il loro ruolo… In famiglia non lo possono fare, insomma mettetevi nella situazione di un padre che tiene un figlio a cui non solo non può dire cosa sta facendo, ma con cui non può avere alcun confronto vero. Allora trovare un giovane che risponde… Del resto in carcere che accade? Acchiappano i giovani e gli dicono: “Accusati di un delitto, noi l’abbiamo fatto all’inizio della carriera, mo’ lo fai tu, poi qualcun altro lo farà per te”. Uno dei modi di reclutare è questo: che tu ti accusi falsamente. Probabilmente anche lui si è autoaccusato di omicidio. Ma lui e quelli come lui sono ragazzi totalmente abbandonati. Lui era senza padre e la madre, nel momento più grave, si era messa a spacciare cocaina praticamente sotto la caserma dei carabinieri, così l’hanno arrestata e lui è rimasto completamente abbandonato.
Allora, la famosa frase: “ma da me nessuno mai si viene a prendere un caffè”... Il problema è che all’inizio c’è proprio questo bisogno umano, prima che criminale, di avere dei seguaci. Perché quando non puoi trasmettere niente ai figli, o uno si immagina che questi siano dei mostri totali, appartenenti a un’altra razza, oppure hanno i nostri stessi sentimenti e le nostre stesse emozioni. Solo all’interno di un contesto di crimine. Allora la signora che dice: “Da me nessuno si viene a prendere il caffè”, una signora di una grande famiglia camorristica, cosa sta dicendo? Che ti vuole reclutare? No, sta dicendo che vuole uno che vada a prendersi il caffè con lei. Il problema è che se il caffè da lei se lo va a pigliare la professoressa Carla, la cosa rimane senza conseguenze, ma già se c’andava Ciro 15 anni fa, da un caffè piano piano si sviluppava un’altra cosa… Ma loro all’inizio lo fanno sinceramente, emozionalmente…
Ciro. A San Giovanni noi abbiamo avuto a che fare con queste signore, praticamente tutte mogli di mariti carcerati o ammazzati. Noi arrivavamo, prendevamo i bambini… negli anni in cui ci abbiamo lavorato ci hanno confidato di tutto, una fiducia estrema. Il nostro messaggio era sempre chiaro: noi veniamo qui a prendere il bambino, perché vogliamo separare la vita dei grandi da quella dei piccoli, cominciamo dai vostri figli e poi andiamo da quelli della signora accanto. Loro sapevano che noi eravamo contro la camorra, però andavamo nelle loro case a prendere il caffè, certo rimanendo educatori… Ecco, ancora adesso, quando passo da quelle parti, ci saltano addosso: “Fermati, vieni…”. Loro sapevano che tu andavi là per portare i ragazzi a scuola… Che poi gli chiedevi: “I maschi di famiglia come stanno?”, “Metà dentro e metà fuori”. Per XXX io sono andato dalla figlia del boss: “Guarda che io lo accompagno a scuola, tu mi devi aiutare in questo”, nel senso non te lo mettere sotto il palazzo. Quella sai che disse? “Ciro, tu avanti e io dietro di te… Guarda ti sto dicendo una cosa che va contro di me, però il ragazzo te lo lascio stare”. Loro capivano il nostro messaggio.
Cesare. E’ successa una scena incredibile, dal salumiere sotto casa nostra che è stato sparato due o tre volte da un rapinatore… Una ragazzina, sempre di una di queste famiglie, che è stata nostra allieva, incontra Carla dal salumiere, e quindi abbracci e baci. Ebbene, silenzio di tomba nella salumeria e tutti che ti guardano così… perché per loro che si abbracciasse la “notoria rappresentante”… Ma quella è una ragazza, è solo “figlia di”. Non solo non è criminale, ma probabilmente non lo potrà mai diventare, probabilmente è già sotto psicofarmaci, quindi non stiamo parlando dei criminali, ma della figlia del criminale, che tra l’altro non ha nemmeno i requisiti per diventarlo…
Questo per dire che ci sono dei bisogni umani anche nel peggiore dei criminali...
8 luglio 2006
Le dichiarazioni di Massimo Cacciari, con cui ha criticato Zapatero perché non è andato alla messa di Benedetto XVI, dopo averlo accolto e salutato all’aeroporto, sono un attacco piuttosto vigoroso all’esistenza della religione come sfera separata dalla politica.
In genere si rimprovera ai musulmani di non essere capaci di separare la religione dalla politica, ma quando i Musulmani delle Alpi, associazione piemontese di musulmani, quasi tutti marocchini di origine, hanno invitato qualche mese fa degli amici non credenti in nessuna religione, e in ogni caso non musulmani, alla festa per il genetliaco di Maometto, che si teneva a Teatro Nuovo a Torino, molto capiente e pieno, avevano allestito una saletta per la preghiera in quello che forse di solito è un guardaroba, per chi voleva pregare, riservando il teatro propriamente detto alla festa.
I canti dei ragazzini erano a tema religioso, in modo trasparente anche per chi non parla arabo, perché era ricorrente il nome di Dio, e suoi derivati e composti, ma non era un atto di culto, non chiedevano di fingere nessuna fede. Era come sentire i ragazzini di un oratorio cantare “Tu scendi dalle stelle”.
Marocchini non particolarmente credenti che hanno sposato italiane cattoliche praticanti hanno preso l’abitudine di partecipare a tutte le ricorrenze famigliari, ma non vanno alla messa, neppure a quella di Natale, che pure ha caratteristiche tradizionali oltre che religiose, per rispetto e un certo imbarazzo.
Può capitare a non credenti che hanno molti amici stranieri di andare alla messa dei migranti, per amicizia nei confronti di molti dei partecipanti, magari anche del celebrante, che è un vecchio prete operaio, e per la curiosità di sentire una messa cantata (e danzata) in swahili, con tutti i fedeli che ballano e file di signore nere, con tonaconi rossi, che coi tacchi e il turbante sono alte due metri, e ballano come la maggior parte degli italiani e delle italiane non riuscirà mai a fare.
Forse sbagliano, anche se non c’è disprezzo né rappresentanza, ma affetto in quello che fanno.
Ma loro non sono Presidenti del Consiglio.
Appunto, ci dice Cacciari. Se Parigi val bene una messa, perché non anche Madrid?
Il Presidente del Consiglio ha dei doveri nei confronti degli spagnoli che sono invece credenti, anche se non hanno votato per lui. Certo. Ma la maggioranza di spagnoli che non vanno a messa, come la maggioranza degli italiani, lui non li rappresenta? Si capisce Juan Carlos, che è re cattolico per dovere dinastico, ma il Presidente del Consiglio, perché? Sarebbe come chiedere che Prodi, cattolico praticante, non vada a messa per rispetto della maggioranza degli italiani, che non ci va. Non sarà importante, in Spagna come in Italia, dove la messa rischia di tornare ad essere un dovere, ribadire che è un atto di culto di una definita religione, pubblico, ma personale, e che la politica è un’altra, importantissima, cosa? (Francesco Ciafaloni)
8 luglio 2006
“Con i colpi di mortaio che esplodono a due passi anche due volte al giorno, a Ramadi, in Iraq, il sergente Mark Grelak, 35 anni ha trovato il modo di lasciare fuori dalla porta il caldo, il rumore e tutti gli impegni del suo lavoro: apre il laptop, sistema la telecamera e guarda la figlia Katie fare i primi passi incerti”. A 6000 miglia di distanza da casa, il sergente Grelak in questi mesi ha disegnato fiori con Sara, la sorella di Katie, e l’ha seguita, quasi in tempo reale, nel suo primo giorno di scuola. Con la moglie Jennifer, 26 anni, hanno anche comprato casa, a Baltimora: c’è stato un via vai di foto e stime, perizie…
Le decine di milioni di dollari spesi in internet cafè, computer e telecamere hanno posto fine a missioni che facevano di mogli e mariti due estranei, rendendo particolarmente traumatico il ritorno. Internet ha ammorbidito l’effetto delle lunghe distanze, permettendo ai familiari di stare in contatto quotidiano coi propri cari e ai soldati di essere quotidianamente aggiornati su quanto accade alle loro famiglie.
Non per tutti però l’aggiornamento costante è una cosa positiva. “Chi vorrebbe sentirsi raccontare che la propria figlia s’è fatta un tatuaggio?”.
Dall’altra parte, per chi resta a casa c’è il rischio di sviluppare una dipendenza alla connessione, che costringe a correre al computer appena si ha un minuto, a scapito della vita reale, che resta in qualche modo sospesa.
La possibilità di comunicare via internet è iniziata negli anni ’90, durante la crisi nei Balcani. Il solo Dipartimento della Difesa ha speso più di 165 milioni di dollari negli ultimi due anni per allestire dei cyber cafè. L’uso dei satelliti ha reso le cose più semplici. Freedom Calls, che raccoglie fondi privati per rendere disponibili collegamenti satellitari, ha permesso a 30.000 soldati di stanza in Iraq di mettersi in contatto con i loro cari; grazie al sistema della videoconferenza questi ultimi hanno potuto assistere a parti, feste di compleanno, matrimoni, diplomi… Negli Usa, circa 1000 famiglie sono state dotate di schermi nella propria abitazione.
Se il tasso dei divorzi tra i soldati che ritornano rimane alto, tutti concordano nel ritenere che internet abbia aiutato il morale dei soldati. Resta il problema di un accesso che rende difficile controllare la fuoriuscita di informazioni “classified”. I soldati non dovrebbero raccontare dove stanno andando, cosa stanno portando, quanto rimarranno, ecc. Ma monitorare tutte le chiamate, le email e il traffico internet è praticamente impossibile, per cui non resta che affidarsi all’ “autocensura”. Ma è una bella sfida, perché in genere i soldati sono molto orgogliosi di quello che fanno e desiderano raccontarlo a qualcuno…
La signora Dixie Clark, di Harrisburg, ricorda ancora quando negli anni ’80 poteva considerarsi fortunata se riceveva una telefonata al mese dal marito, allora marine. Recentemente si è trovata ad essere in ansia per ben tre dei suoi cari: i due figli maggiori e il marito, tutti della Guardia Nazionale, sono stati mandati in Iraq, nella stessa base. Questa volta, però, poteva tener d’occhio i suoi “tre ragazzi” grazie a una web camera. Il giorno che c’è stata un’esplosione nel loro accampamento, la signora Clark ha scritto a uno dei figli di precipitarsi tutti e tre davanti alla telecamera per assicurarsi che stavano bene. Durante la missione i coniugi Clark hanno trascorso, ogni giorno, un’ora e mezza in chat. Tramite la rete hanno anche programmato il loro secondo matrimonio. Lui ha scelto il menù. E quando è capitato un problema a casa, lei ha sempre saputo che una risposta sarebbe arrivata di lì a poche ore: “Tesoro, dov’è la caldaia? E’ finito il gasolio”. (The New York Times)
11 luglio 2006
Undicesimo anniversario dell’eccidio di Srebrenica
Alla vigilia dell’anniversario sono state estratte altre 268 vittime presso la fossa comune di Jaz, l’ottava e probabilmente la più grande scoperta nel villaggio di Kamenica, non lontano dalla città di Zvornik. Gli scavi, cominciati a giugno, continueranno e ci si aspetta che quel numero aumenti. Un team di esperti internazionali hanno setacciato una fossa di 18 metri per 4, lavorando in un clima tropicale, protetti sotto un’enorme tendone in cui veniva pompata aria condizionata, circondati da pile di teschi e ossa. Metà delle vittime di Srebrenica sono state ritrovate in 80 fosse comuni nella Bosnia orientale, ma solo un terzo è stato identificato. (Reuters)
19 luglio 2006, Siena
Incontro per strada Moti, giovane palestinese di Kalkylia, insieme con Paola, la sua ragazza sarda. Qualche anno fa Moti ha preso la maturità tecnica in pochi mesi, con pieni voti, e da allora è un eccellente e stimato informatico. Dopo aver lavorato come dipendente, da qualche tempo è socio di una piccola impresa di software. Andiamo entrambi di fretta e gli faccio la domanda più banale: “Come va?”. Guardandomi con i suoi occhi intelligentissimi e con un sorriso mesto, mi risponde: “E’ dura, è dura, è dura”. Aggiunge con ilare rassegnazione che a Kalkylia la situazione è relativamente calma: nessuno entra e nessuno esce per via del muro e dei ponti distrutti. (Luca Baranelli)
19 luglio 2006
Errata corrige. Forse un tassista nero lo vedranno i nostri nipoti.
20 luglio 2006
Si sente dire: Israele ha il diritto di difendersi. C’è bisogno di dirlo? Chi al mondo non ha questo diritto? Il problema è che Israele ha il diritto di offendere. Ha il diritto di incarcerare indiscriminatamente, di torturare, di promulgare leggi razziali, di mettere in atto forme di pulizia etnica, di sparare a bambini che tirano sassi, di praticare rappresaglie del tutto sproporzionate ai colpi subiti, di tenere in condizioni di vita durissime popolazioni di territori occupati, di disprezzare il diritto internazionale...
Che poi, fra gli anti-israeliani, ci siano tanti che denunciano tale diritto per mettere in discussione il primo, quello a difendersi, cioè il diritto di Israele a esistere, è un fatto. Ma che fra i tanti filoisraeliani ce ne siano molti che invocano il primo diritto per giustificare il secondo, perché attratti dal secondo, perché fautori, in cuor loro, della politica come prepotenza, è altrettanto sicuro.
21 luglio 2006
Ammettendo di essere condizionati dal dispiacere, un po’ meschino effettivamente, trattandosi di così grandi ideali, di veder tornar su Berlusconi in men che non si dica; ammettendo il sospetto, un po’ maligno, che una così nobile gara di pacifismo nasconda una faida squallidamente elettorale fra due tronconi dello stesso partito comunista (che però si ritrovarono insieme al congresso di partito di tal Milosevic le cui gesta, quanto a pacifismo, sono documentate qui a fianco); vorremmo rivolgere di nuovo ai pacifisti, e agli integerrimi otto, le seguenti domande (e ci scusiamo di citarci): chiedereste di bombardare i binari per Auschwitz? Fu giusto combattere Hitler? Viene prima la pace o la libertà? Il pronto soccorso è un dovere? La legittima difesa è un diritto? Questo per star sulle generali. Che poi l’Afghanistan rischi di diventare un’avventura è evidente ma siamo con gli altri e forse è meglio discutere con gli altri. Che l’invasione dell’Iraq sia una catastrofe politica (manna dal cielo per ogni risma di fascisti islamisti) e un’impresa criminale degna del tribunale dell’Aja è oramai, per chi scrive, fuori discussione.
La citazione
Io riconosco il nesso profondo che esiste tra lo Stato di Israele e tutta la vicenda della Shoah, però non si può ignorare qualcosa… Io non posso credere che al mio avversario interessi solo la forza e non la ragione. Ci dobbiamo abituare a pensare che tutti possono comprendere anche la ragione. Contare solo sulla forza, come fosse l’unico argomento valido, alla fine non porterà da nessuna parte. Vittorio Foa (Intervista a Una città, gennaio 2002)
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