Quella che segue è una lettera speditaci da Marcello Flores in risposta a una nostra, poi rimaneggiata nella forma dell’intervento delle pagine addietro.
Cari amici,
provo a mandarvi un primo commento alla vostra lettera. Partiamo dalla questione se il museo debba avere un’anima, se debba essere antifascista.
A me, ormai, il termine "antifascista”, considerando anche chi lo usa con più forza e frequenza, fa venire subito in mente la Ddr, quindi ho un po’ di resistenza a usarlo, ma credo di capire quanto dite. Credo che nel museo si dovrà senz’altro respirare "l’anima della libertà dell’uomo”, anche se sull’antifascismo penso che sarà necessario far parlare qualche grande nome (e su questi penso che siamo d’accordo: preferirei Foa o Salvemini, e ovviamente anche Gramsci, a Secchia o a Moranino) ma non farne una questione centrale.
Nella discussione sul nome non mi va di entrare, perché mi pare che sia uno degli strumenti di battaglia politico-ideologica su cui ci si vuole attestare per fare vedere ai propri seguaci di avere messo il punto. Personalmente penso che non chiamare museo quello che a tutti gli effetti sarà un museo, per quanto particolare, sia sbagliato. Ma vedremo e io pure trovo che non siano in contraddizione il museo che narra la storia del ventennio -io avevo in mente proprio un "museo della storia d’Italia nel ventennio fascista” o qualcosa di simile- e un centro di documentazione e di lavoro didattico, scientifico e divulgativo.
Vorrei anche aggiungere che l’intera discussione mi sembra viziata dall’idea che si possa pensare (come storici, come corporazione, come coscienza critica) di bloccare la decisione di un ente pubblico di svolgere la propria politica e i propri progetti senza nemmeno avere chiaro come saranno. Come sanno tutti (tranne chi non vuole capirlo), questo museo non ha nulla a che fare col monumento a Graziani nel comune di Affile, che pure qualcuno ha tirato in ballo. L’idea che il museo sia di per sé celebrativo, o che lo sia il luogo, credo sia fuori da ogni ragionamento serio e motivato.
Per voi il vero problema è la priorità al rigore scientifico. Non vorrei citare libri in cui è chiaro che il rigore scientifico nelle cose umanistiche è ben diverso da quelle scientifiche dure, per me il faro è Marc Bloch, e mi basterebbe fermarmi lì. Parlare di rigore scientifico, e non credo in modo eccessivo, è un modo per provare a tacitare, lo dico sbrigativamente, le posizioni di un antifascismo di maniera. E per evitare che gli storici possano schierarsi compattamente contro sulla base del fatto che c’è poca scienza (cioè storia) e troppa ideologia o memoria. Mi pare talvolta che si vogliano fare dei processi alle intenzioni sulla base di quello che altri dicono o pensano.
La mancanza di orizzonte morale nel documento. Beh, intanto io credo che il dovere di conoscenza e il debito verso la verità storica siano un grande fatto morale, il più importante, visto che parliamo di tempi in cui in nome dell’antifascismo si giustificavano, da parte dei comunisti per esempio, assassini di migliaia di persone. Nel mio lavoro, in questo caso di insegnante (ma credo anche di scrittore di libri di storia) ho sempre cercato di far capire come "conoscere” sia diverso da giudicare, e che è giusto, possibile o opportuno giudicare, ma solo dopo che si è conosciuto e compreso bene ciò che si vuole giudicare. Il tic psicologico da evitare, per me, è quello di chi vuole che a ogni frase sul fascismo si aggiunga un aggettivo di condanna (io impongo ai miei studenti di non usare aggettivi). Prendiamo ad esempio le leggi razziali. Non vorrei un bel cartello che mi dice quanto siano disgustose le leggi razziali; vorrei qualcosa (scritti, immagini, memorie, testimonianze) che facciano capire -senza rimarcarlo con sottotitoli in evidenza- cosa è la discriminazione, la violenza e il razzismo (su cui sono convinto che non sia necessario dire a un ragazzo che è una cosa cattiva, presumo che lo sappia e anche bene).
La mostra sul 900 della Fondazione mancava proprio del contesto e della conoscenza vera, in cui gli avvenimenti parlano se li si fa parlare, e non se li si isola uno dall’altro. E del resto il richiamo alla "emotività”, che a molti non piace perché poco scientifica, va proprio nella direzione di quell’afflato di libertà di cui parlavate anche voi. Però non può essere, non sarebbe onesto verso la verità e la conoscenza, un museo degli orrori. Non voglio continuare a dire a uno studente che Mussolini è un criminale farabutto, anche perché se lo studente lo avesse un poco in simpatia, potrei urlarglielo quanto voglio ma continuerebbe a pensarlo; voglio mostrargli che alcune cose a cui tiene, forse quelle a cui tiene di più, a quell’epoca non erano permesse, voglio che capisca come si può, in milioni di persone, farsi abbindolare da quella retorica e dove essa porta, mostrando anche i "non orrori” che il regime ha fatto e che ne sono parte ineliminabile, non per equilibrare cattivo e buono, ma per mostrare che l’Italia in quei vent’anni (e gli italiani soprattutto) hanno vissuto e hanno dovuto convivere con una cosa non monolitica, complessa anche se il termine vi sembra, chissà perché, giustificazionista. Non voglio continuare a dire che il fascismo è stata una parentesi (e quindi meglio non parlarne se non nei libri noiosi degli storici), e neppure che è l’inveramento del nostro carattere ambiguo, infido e infingardo da secoli. Voglio fare conoscere attraverso la conoscenza e l’immedesimazione (nel clima, non certo nei valori del regime), e permettere quindi che il giudizio da trarne alla fine, soprattutto i giovani lo sentano loro, non imposto da vecchi che in nome della morale vogliono sottrarre loro la possibilità di conoscere tutto, anche aspetti contraddittori, anche l’entusiasmo che creava, anche il consenso più o meno volontario della quasi totalità della cultura, ecc. ecc. Perché dovrebbe essere come dire, con Berlusconi, che il fascismo era vacanze a Ventotene e telefoni bianchi? Certo, era anche telefoni bianchi, era confino (per fortuna non campi come in Germania o in Urss), era anche condanna a morte soprattutto per sloveni e minoranze; era bonifica ma anche colonialismo aggressivo e razzista, era edifici pubblici che per molti aspetti sono stati l’ultima grande architettura italiana ma che non scusano (e anzi va capito l’intreccio) le leggi razziali e tutto quanto vi si aggiunge con la guerra e la Rsi.
Io voglio che la colpa del fascismo i giovani la comprendano e diventi parte della loro coscienza. Se questo può avvenire in Germania (meglio o peggio non lo so, sinceramente) per via dei monumenti alla colpa non saprei. Bisogna anche far capire che la colpa è qualcosa che riguardava i nonni o i bisnonni; bisogna stare attenti a non insistere nel voler coinvolgere anche i giovani in una colpa che non hanno, storicizzando anche le amnesie e le assoluzioni dell’immediato dopoguerra; a non farne un bisogno attuale con l’idea che, dato che non si è fatto per 70 anni, dovrebbe essere ancora più acceso e acuto, mentre per i giovani non mi pare sia altro che voglia di conoscere. Sulle altre cose (negozi, ristorante, monumento, ma anche una vostra lettura di alcune parti del documento in cui non mi riconosco per nulla) ne parleremo a voce. Vorrei solo aggiungere che nelle discussioni su come impostare il museo è sempre stata presente l’idea di una qualche installazione (non la chiamerei monumento anche se probabilmente dovrà essere monumentale) di taglio contemporaneo, che sia un omaggio (un ricordo, un monito, quello che si vuole), per le vittime del fascismo, fra cui Giacomo Matteotti, che credo dovrà certamente essere una delle figure di spicco del museo.
Sul museo del fascismo a Predappio, una lettera di Marcello Flores
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Sul museo del fascismo a Predappio, una lettera di Marcello Flores
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